«Il canto è la scala di Giacobbe che gli angeli hanno dimenticato sulla terra». È famosa la visione notturna del patriarca biblico: «Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa» (Genesi 28, 12). L’immagine è assunta da Elie Wiesel, il noto scrittore ebreo Nobel per la pace, per applicarla alla scala musicale in cui le note sono angeli di Dio. Ed effettivamente in tutte le grandi culture alla genesi della musica è connessa una teofania. Per la Bibbia la creazione avviene attraverso un evento sonoro: «In principio … Dio disse: Sia la luce!» (Genesi 1, 3). «In principio era la Parola», ripete l’inno del prologo del Vangelo di Giovanni (1, 1).
Anche nei Veda la divinità è un suono primordiale (Prajapati) che si sfrangia nella molteplicità delle creature, simili a note di un canto cosmico, mentre nel IV Inno omerico è Hermes che estrae dalla materia l’armonia insita, tendendo semplicemente le corde sul guscio di tartaruga nel quale s’era imbattuto. Anche la storia umana è svelata nel suo senso profondo attraverso un’epifania sonora divina, come si legge nel libro biblico del Deuteronomio, che così evoca l’evento del Sinai: «Dio vi parlò di mezzo al fuoco: suono di parole voi ascoltaste, immagine alcuna non vedeste, solo una voce» (4, 12). E l’approdo ultimo della storia è rappresentato dall’Apocalisse attraverso una palinodia per soli, coro e orchestra che pervade tutto quel libro sacro.
In questa luce la musica è strutturalmente un discorso trascendente, è una “teo-logia”, ossia un parlare di Dio, dove il genitivo è contemporaneamente soggettivo (è Dio stesso che si rivela attraverso di essa) e oggettivo (è con la musica che noi intuiamo Dio). Da un lato, quindi, con Edmond Jabès dobbiamo riconoscere che «dopo il silenzio, ciò che più si avvicina a esprimere l’ineffabile è la musica». D’altro lato, aveva ragione l’agnostico scrittore franco-rumeno Emile Cioran quando paradossalmente rimproverava i teologi di aver ignorato che la maggior prova dell’esistenza di Dio era nella musica di Bach: dopo aver ascoltato una sua cantata o una Passione o la Messa in Si minore, «Dio deve esistere».
Ed era proprio Bach, la cui biblioteca era sorprendentemente composta in forma quasi esclusiva di testi sacri e spirituali, a non esitare nell’affermare che «il finis della musica non dovrebbe mai essere altro che la gloria di Dio e la ricreazione della mente». Non per nulla egli spesso imponeva alle sue partiture la sigla SDG (Soli Deo Gloria) e talora via apponeva in finale l’altra sigla J.J. (Jesu Juva!), svelando non solo nei testi ma nella sua intenzione la matrice religiosa della sua opera. È, però, significativo che egli parlasse anche di “ricreazione della mente”.
Senza essere né descrittiva o informativa né parenetica o performativa in senso diretto, la musica ha una funzione trasfiguratrice dell’anima, della mente, del cuore umano. Curiosamente Lutero e Cervantes si incrociavano senza saperlo quando il primo nella sua Frau Musika scriveva che «non può esserci animo cattivo laddove cantano bene gli amici» e il secondo nel suo Don Chisciotte ribadiva che «dove c’è musica non può esserci nulla di cattivo». Eppure si ha anche la consapevolezza che nelle mani fragili e spesso colpevoli dell’uomo la potenza efficace della musica può essere sorgente di tragedia. Non si può dimenticare infatti l’aspetto “dionisiaco”, orgiastico e depressivo della musica, secondo una famosa linea interpretativa della tradizione classica.
La celebre Sonata a Kreutzer del racconto di Tolstoj ne è l’emblema drammatico: «Dicono che la musica abbia per effetto di elevare l’anima… sciocchezze! Non è vero. Agisce, agisce tremendamente … ma niente affatto nel senso di elevare l’anima: non la eleva né l’abbassa: l’esaspera». Ed è per questa via che si può assistere anche a una degenerazione della musica, non tanto nel senso della retorica del cosiddetto “rock satanico” quanto piuttosto nella devastazione dell’armonia facendola scadere nella bruttezza, nella banalità, nel rumore, nel cattivo gusto. Flaubert usava un’immagine vigorosa: «Noi spesso battiamo su una caldaia incrinata una musica da far ballare gli orsi e invece vorremmo commuovere le stelle!».
È un po’ ciò che accade talvolta nella liturgia, soprattutto in questi ultimi tempi. Ed è ingiusto accusare la riforma del Concilio Vaticano II perché nella Sacrosanctum Concilium (nn. 112-121) si offrivano indicazioni significative, a partire dall’asserto di base: «La musica è parte integrante della liturgia, esprime dolcemente la preghiera, favorisce l’unanimità; e il repertorio accumulato nei secoli costituisce un patrimonio di valore da conservare». Le direttrici concrete, poi, passavano attraverso capitoli che sarebbero tutti non solo da condividere ma da attuare in pienezza: la funzione delle scholae cantorum, la seria formazione musicale del clero e degli operatori pastorali, il ruolo del canto gregoriano, l’esaltazione dell’organo come strumento principe del culto cattolico (e anche protestante), il dialogo con la contemporaneità.
Quest’ultimo capitolo, che è decisivo, è stato purtroppo e spesso malamente e affrettatamente declinato; eppure è in sé necessario, come ha attestato la grande eredità della tradizione. Solo per fare un esempio, si pensi, infatti, all’innovazione impressionante (e forse allora anche scandalizzante) introdotta dalla polifonia rispetto alla purezza monodica del canto gregoriano. Ma questo avveniva ad alto livello con autori di grande originalità e preparazione, ed è ciò che è mancato ai nostri giorni. La musica contemporanea con la sua nuova grammatica deve incontrarsi col sacro, che ha canoni, testi e temi propri, per un incrocio che permetta una nuova fioritura.
Il percorso è, certo, arduo e lungo, sia a causa del divorzio che si è operato tra culto e musica di qualità, sia per la secolarizzazione e l’allontanamento radicale della società da ogni visione religiosa, sia per l’auto-reclusione della liturgia in forme scontate o superficialmente innovative oppur di mero ricalco del passato. L’impegno è, dunque, necessario e grave proprio per impedire quello che già nel VI secolo minacciava un originale scrittore cristiano come Cassiodoro che nelle sue Institutiones ammoniva: «Se continueremo a commettere ingiustizia, Dio ci lascerà senza la musica». Il desiderio sempre più diffuso di far rivivere il patrimonio tradizionale da una parte, e dall’altra i contatti sempre più frequenti e appassionati tra musicisti contemporanei e teologi o operatori pastorali fanno sperare che Dio non stia abbandonando l’umanità pur peccatrice. E la sua parola continua a ribadire con forza: «Cantate inni a Dio, cantate inni, cantate inni al nostro re, cantate inni; cantate a Dio con arte!» (Salmo 47, 7-8).