Oltre a quelle istituzionali e storiche, c’è una ragione più profonda che coinvolge la Chiesa e la figura di Giotto (come quasi tutti i grandi protagonisti dell’arte del passato). E’ quella che Giovanni Paolo II, nella sua Lettera agli Artisti del 1999, definiva «l’alleanza feconda tra fede e arte». Negli Statuti degli artisti senesi del Trecento si leggeva questa dichiarazione programmatica: «Noi siamo manifestatori agli uomini, che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede». Detto in altri termini, estetica e fede, rappresentazione e narrazione sacra, umanità e trascendenza, volto e icona s’intrecciavano tra loro e si fondevano nell’unità di un’arte che era anche professione di fede. Giotto ne è un emblema supremo: basti pensare ai mirabili trentotto riquadri della Cappella degli Scrovegni, vera e propria mirabile esegesi pittorica e visiva della storia della salvezza, oppure rimandare alla sequenza iconologica di questo splendido catalogo.
Ora, Petrarca, nelle sue Epistolae familiares, era convinto che la creatività di Giotto «ignorantes non intelligunt, magistri autem artis stupent». Con tutto il rispetto per il grande poeta, noi siamo convinti che il celebre pittore riesca a parlare, a coinvolgere e a scuotere tutti, dotti e incolti. E’ quella “via pulchritudinis” che era stata per secoli la strada semplice eppur nobile aperta a tutti per trascorrere dal bello della raffigurazione al Bello supremo, essendo desiderio della vera arte raggiungere l’«Inconnu», come diceva Laforgue, o l’Invisibile, come suggeriva Mirò (e la maiuscola è fondamentale).
In questa luce diventa inestricabile il nesso tra arte e fede, al punto tale che uno dei cantori orientali dell’icona, san Giovanni Damasceno, nell’VIII secolo, non esitava a scrivere: «Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostra a lui lo splendore delle immagini e spiegagli la sequenza dei sacri quadri». Giotto è uno dei segni alti di questa ricerca del divino nell’umano. Con lui potremmo trovare la dimostrazione diretta e la conferma di quella frase, a prima vista paradossale, che Hermann Hesse ci ha lasciato nel suo racconto Klein und Wagner (1920): «Arte significa: dentro ad ogni cosa mostrare Dio».