Introduzione
In questo breve saggio non si vuol minimamente abbozzare una trattazione che possa dirsi completa, né tanto meno esaustiva, della complessa e articolata iconografia della figura di Cristo, ed in particolare del suo volto. Per questo si rimanda volentieri ai diversi studi in merito e alle voci di dizionari o enciclopedie che ne trattano ampiamente[1].
Nel contesto specifico di questo numero monografico di PATH, centrato sulla “via della bellezza”, si vuole piuttosto evidenziare la singolare bellezza di Cristo, ed in particolare del suo volto, così come ci viene mostrato dall’arte cristiana dell’Antichità, del Medioevo e del primo Rinascimento.
Ci chiediamo, dunque, quale bellezza riscontriamo in Cristo, e quale bellezza di Cristo, uomo-Dio, viene espressa e mostrata dall’arte. Dopo il necessario e sintetico riferimento ad alcuni testi biblici, prendiamo in considerazione testi patristici e documenti storici in cui viene man mano delineata la “fisionomia” di Cristo e quindi la sua singolare bellezza. Sulla scorta di tale documentazione sarà quindi più agevole ed interessante esaminare alcune opere d’arte, solo pochissimi esempi dei tanti possibili, che rispecchiano le diverse convinzioni sulla bellezza di Cristo maturate nella riflessione cristiana.
Non entriamo, poi, nella complessa ed articolata controversia relativa all’iconoclastia, che trova nel Niceno II una risposta essenziale, poichè la materia è già ampiamente studiata e costituisce comunque il naturale background di questo lavoro[2].
1. La bellezza di Cristo nel Nuovo Testamento
Alcuni testi del Nuovo Testamento sono particolarmente significativi per la teologia dell’immagine e per la definizione della bellezza di Cristo nei suoi diversi aspetti.
I testi paolini, innanzitutto, ci offrono alcune fondamentali affermazioni, su cui rifletterà tutta la tradizione cristiana.
Nella Seconda Lettera ai Corinzi (4, 4. 6), in un contesto di polemica con «coloro che si perdono, ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula», Paolo riafferma vigorosamente il suo annuncio del «glorioso vangelo di Cristo che è immagine (eikon) di Dio». L’autorevolezza dell’Apostolo e la forza del suo annuncio derivano dalla rivelazione ricevuta da Dio, che ha fatto risplendere nel suo animo, nel suo cuore, come in quello dei veri discepoli di Cristo «la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo».
Abbiamo, così, due fondamentali affermazioni: Cristo è immagine-icona di Dio, sul suo volto risplende la gloria divina.
Nel famoso Inno cristologico con cui si apre la Lettera ai Colossesi viene ripreso il tema dell’immagine. Si afferma, infatti, al v. 15: «Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura». Si precisa che Cristo è immagine, dunque realtà visibile, percepibile, che rivela e manifesta la bellezza del Padre, del Dio invisibile. E al cap. 2, v. 9 si afferma, con termini molto pregnanti, che «è in Cristo che abita corporalmente (somatikos) tutta la pienezza della divinità».
Nell’altro Inno cristologico, riportato nella Lettera ai Filippesi (2, 7-8), guardando al Cristo della Passione, al vero Servo sofferente che riconcilia l’umanità col Padre, si afferma: «Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce». Nell’Incarnazione Cristo lascia dunque la morphè divina per assumere la forma umana, quella di un servo, facendosi così simile all’uomo, e dunque visibile e percepibile, dotato di caratteri pienamente umani.
Nell’incipit della Lettera agli Ebrei (1, 3), l’Autore sacro riprende e approfondisce la visione paolina, offrendoci anche una precisa terminologia, fondamentale negli sviluppi teologici ed iconografici successivi: «Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta (charakter) della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola…».
Cristo, dunque, non solo è immagine ma anche irradiazione della gloria di Dio, “carattere” della persona del Padre, reggitore del mondo con la forza della sua Parola.
Il Vangelo di Giovanni, al pari della letteratura paolina, offre un contributo fondamentale alla definizione della “fisionomia” di Cristo, e rivelandoci la sua identità divina ci aiuta anche a definire la sua immagine umana, la sua corporeità e la sua visibilità/tangibilità.
Punto di partenza ineludibile è, evidentemente, l’affermazione centrale del Prologo (1, 14): «Il Verbo si è fatto carne», a cui fa da pendant l’affermazione conclusiva: «Il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato». L’essere di Cristo nella carne, nella concreta condizione umana, è la condizione di possibilità perché la rivelazione del Padre possa entrare nella storia umana ed essere ascoltata, percepita ed accolta.
Rafforza tale convinzione la perentoria risposta di Gesù a Filippo, che lo interroga chiedendogli di mostrare il volto del Padre (Gv 14, 9): «Chi ha visto me, ha visto il Padre».
Sarà questa affermazione a giustificare e motivare, nella riflessione teologica e nell’arte cristiana, non solo la rappresentazione figurativa di Cristo ma anche quella delle altre due Persone della Trinità, raffigurate esattamente alla stessa maniera. Nella figura umana visibile di Cristo si manifestano e si rivelano anche il Padre e lo Spirito[3].
Uno spunto più concreto e immediato per l’iconografia cristiana dei primi secoli viene, inoltre, offerto dalla celebre espressione che ritroviamo al capitolo 10 (vv. 11.14): «Io sono il buon/bel pastore…». Cristo viene designato come pastore e in più qualificato con l’aggettivo kalós, cioè bello, di una bellezza che non è disgiunta dalla bontà, corrispondente all’aggettivo ebraico (tôb) che ritroviamo, ad esempio, nel racconto della Creazione.
Un altro testo significativo, anche per le suggestive e spesso commoventi rappresentazioni che ha ispirato, è quello che si ritrova nel dialogo tra Gesù e Pilato, il quale, mostrandolo alla folla dei Giudei, afferma (19, 5): «Ecco l’uomo!».
Non vanno, infine, dimenticati i testi dei Sinottici che raccontano l’evento teofanico della Trasfigurazione (Mc 9, 2-8; Mt 17, 1-8; Lc 9, 28-36), in cui la bellezza di Cristo, e la sua rivelazione della gloria del Padre, vengono espresse attraverso il linguaggio della luce e dei colori.
2. Testimonianze antiche sulla figura di Cristo, sulla sua bellezza e sulla sua bruttezza o deformità
Se i testi biblici, ed in particolare quelli evangelici, non parlano delle caratteristiche fisiche di Cristo e non ne descrivono la fisionomia né ce ne danno un “ritratto”, evidenziando piuttosto la sua identità divino-umana, ci dicono qualcosa di più alcuni testi antichi. Non si tratta, certo, di testi che possiamo considerare storicamente attendibili sulla reale fisionomia fisica di Gesù, ma risultano comunque importanti, perchè ci rimandano a tradizioni orali o a convinzioni che circolavano in ambienti cristiani già nei primi secoli[4].
Un primo testo ci riporta l’obiezione di Celso, contenuta nell’opera Discorso vero, risalente all’incirca all’anno 170, conosciuta attraverso la citazione che ne fa Origene nell’opera scritta proprio per confutare le affermazioni dello stesso Celso:
«Qualora uno spirito divino avesse albergato nel corpo (di Cristo), questo avrebbe dovuto necessariamente superare gli altri corpi o per grandezza o per bellezza e forza o per la voce o per la maestà o per il dono della persuasione (…) Eppure il suo corpo non differiva affatto dagli altri corpi; ma – a quanto dicono – era piccolo, brutto a vedersi e volgare»[5].
Lo stesso Celso, dunque, rimanda ad una opinione da lui appresa – “a quanto dicono” – e la ripropone come possibile.
Un testo interessante, di matrice giudaica ma cristianizzato dal II secolo, è quello degli Oracoli Sibillini, in cui possiamo intravedere quale fosse l’impatto sociale e antropologico dell’affermazione della bruttezza di Cristo: «Egli è venuto nel creato non in bellezza, ma come uomo povero, disonorato e insignificante per dare speranza ai miserabili»[6].
I Padri della Chiesa e gli scrittori cristiani dei primi secoli ripensano e tratteggiano la figura, e la singolare bellezza di Cristo, a partire dall’Antico Testamento, secondo un procedimento più che consueto nell’antichità cristiana.
Due testi scritturistici giocano un ruolo assolutamente primario, senza escludere altri possibili riferimenti: il Salmo 45(44), 2ss. e Isaia 53, 2ss.
Nel primo, un salmo regale, interpretato come inno di nozze del re-messia con la sposa, figura della Chiesa, si afferma, nella versione della Vulgata: «Speciosus forma prae filiis hominum, diffusa est gratia in labiis tuis… Specie tua et pulchritudine tua intende…- Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia…E’ bello e maestoso avanza».
Nel secondo leggiamo la profezia di Isaia riguardo alla misteriosa figura del Servo sofferente di JHWH: «Non est species ei, neque decor, et vidimus eum, et non erat aspectus, et desideravimus eum; despectum, et novissimum virorum, virum dolorum, et scientem infirmitatem; et quasi absconditus vultus eius et despectus, unde nec reputavimus eum… - Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima».
Sulla scia di quest’ultimo brano, Padri come Ireneo e Tertulliano attribuirono a Cristo, anche per rispondere alla polemica docetista e gnostica, tratti fisici decisamente negativi, ma che evidenziavano la sua piena assunzione della umanità, con tutti i suoi limiti e miserie.
Se Cristo stesso pronuncia sulla croce le prime parole del Salmo 22(21), Tertulliano non esita ad interpretare in chiave cristologica anche il seguito dello stesso Salmo, tra cui il versetto 7: «Sono un verme e non un uomo»[7].
Giustino, nel suo Dialogo con Trifone, afferma in proposito:
«Quando i principi celesti videro che la sua figura era senza bellezza, senza onore e senza gloria, non riconoscendolo domandarono: ‘Chi è questo signore della gloria?’ e lo Spirito santo rispose loro nel nome del Padre e a suo nome: ‘Il signore delle potestà è il re della gloria’»[8].
Nella letteratura successiva, ad esempio nell’opera apocrifa conosciuta come Atti di Tomaso, la bruttezza di Cristo viene vista come uno strumento per ingannare il diavolo e dunque come strumento di salvezza per l’uomo:
«Mentre pensavamo di poterlo assoggettare al nostro potere, egli (Cristo) si voltò e ci precipitò nell’abisso. Noi non lo conoscevamo, avendoci egli ingannato con il suo aspetto umile, con la sua indigenza e povertà. Al vederlo pensammo che fosse uno dei figli degli uomini, ignorammo che egli era il datore di vita a tutta l’umanità»[9].
Sulla dialettica tra bruttezza apparente e bellezza sostanziale di Cristo, ci offrono suggestive testimonianze alcuni esponenti della scuola alessandrina.
Clemente Alessandrino afferma, per un verso, che «il nostro Salvatore supera ogni natura umana. Egli è bello, tanto che Egli solo da noi è amato, da noi che aspiriamo alla bellezza vera»[10]. D’altra parte sostiene che «Egli stesso, il ‘capo della Chiesa’, venne sulla terra nella carne, benchè ‘brutto e malforme nell’aspetto’, insegnandoci così a volgere lo sguardo alla natura invisibile e incorporea della causa divina»[11]. Il concetto è ripreso in un altro brano della stessa opera:
«Il Signore volle assumere un corpo di forme meschine non invano, ma allo scopo che nessuno, apprezzando l’aspetto avvenente e ammirando la bellezza fisica, si distogliesse dalle sue parole e restasse escluso dalle realtà intelligibili solo per aver posto attenzione alle cose che poi vanno lasciate»[12].
Anche Clemente, dunque, in vista della redenzione dell’uomo, della sua divinizzazione, afferma che Cristo ha assunto su di sè la deformità dell’uomo per poi ridonargli la bellezza originaria, quella autentica, che si manifesta in lui:
«Ma l’uomo in cui abita il Verbo (…) è simile a Dio, è bello, non s’abbiglia; è la vera bellezza, perché è Dio (…). Ma Dio stesso, patendo insieme, fece la carne libera dalla corruzione e, liberatala da una schiavitù amara e portatrice di morte, la rivestì dell’incorruttibilità, dandole questo santo e imperituro ornamento dell’immortalità (…). Che il Signore fosse brutto nell’aspetto lo attesta lo Spirito per mezzo di Isaia: Lo vedemmo e non aveva bell’aspetto, né bellezza, ma un aspetto spregevole, vile davanti agli uomini. Chi è meglio del Signore? Non mise in mostra l’ingannevole bellezza della carne, bensì la vera bellezza dell’anima e del corpo, la bontà dell’anima e l’immortalità della carne»[13].
Origene, rispondendo alle posizioni di Celso, prima accennate, afferma che ciascuno può percepire nell’aspetto di Cristo quel che riesce a cogliere e che, per chi sa guardare oltre l’apparenza, si rivela la vera bellezza del Signore:
«Non bisogna stupirsi, allora, se la materia, per natura mutevole e plasmabile (…), è tale da giustificare le seguenti parole: ‘Non aveva forma, né bellezza’; e neppure bisogna stupirsi se essa è così gloriosa, impressionante e degna di ammirazione che, di fronte a cotanta bellezza, i tre apostoli saliti con Gesù sulla montagna, ‘caddero davanti al suo volto’»[14].
Nel volto sfigurato e deforme del Cristo sofferente, Origene invita gli uomini purificati e spirituali a scorgere, con sguardo di fede e in profondità, la luminosa bellezza del Cristo trasfigurato e risorto[15].
Lo stesso Origene sembra poi conoscere quanto scritto nell’opera apocrifa Atti di Giovanni, databile agli anni 140-150, in cui l’Apostolo prediletto racconta il suo incontro con Cristo:
«Quando ci allontanammo da quel luogo per seguirlo, allora mi apparve con la testa quasi calva, ma con una barba che discendeva folta, mentre a Giacomo apparve come un giovanetto con una barba recente (…) Spesso mi appariva come un uomo piccolo e brutto e quindi, altre volte, come uno che mirasse al cielo»[16].
Condividono le posizione di Giustino e di Clemente anche Ireneo[17]; Tertulliano[18] e Ambrogio[19].
La convinzione origenista, per cui la bellezza di Cristo è alla portata solo degli uomini “spirituali” viene condivisa da Agostino, il quale sostiene che bisogna essere dotati di una vista pura per riuscire a vedere la bellezza sostanziale e spirituale di Cristo[20], altrimenti vedremmo soltanto, come nel caso degli estranei e dei persecutori, la sua povertà e deformità[21].
Anche per Agostino l’immagine sfigurata o deforme di Cristo è motivata dal suo assumere in toto la condizione umana, al fine di redimerla e di trasformarla, rendendola veramente bella[22].
Il testo forse più significativo a tal proposito è il commento alla Prima Lettera di San Giovanni:
«Noi dunque amiamolo, perché egli per primo ci ha amati (…). Ci ha amati per primo e ci ha donato la capacità di amarlo. Ancora noi non lo amavamo; amandolo, diventiamo belli (…). La nostra anima, fratelli, è brutta per colpa del peccato: essa diviene bella amando Dio. Quale amore rende bella l’anima che ama? Dio sempre è bellezza, mai c’è in lui deformità o mutamento. Per primo ci ha amati lui che sempre è bello, e ci ha amati quando eravamo brutti e deformi. Non ci ha amato per congedarci brutti quali eravamo, ma per mutarci e renderci belli da brutti che eravamo. In che modo saremo belli? Amando lui, che è sempre bello. Quanto cresce in te l’amore, tanto cresce la bellezza; la carità è appunto la bellezza dell’anima»[23].
A partire da questa premessa Agostino si fa carico della dialettica bellezza-bruttezza di Cristo, il Messia annunciato dai Profeti, e ci offre la sua magistrale interpretazione dell’apparente contraddizione scritturistica, offrendo così un punto fermo in tutta la tradizione cristiana:
«Quale fonte ci afferma che Gesù è bello? Le parole del salmo: Egli è bello tra i figli degli uomini, sulle sue labbra ride la grazia. Dove sta il fondamento di questa asserzione? Eccolo: Egli è bello tra i figli degli uomini perché in principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio ed il Verbo era Dio. Assumendo un corpo, egli prese sopra di sé la tua bruttezza, cioè la tua mortalità, per adattare se stesso a te, per rendersi simile a te e spingerti ad amare la bellezza interiore. Ma quali fonti ci rivelano un Gesù brutto e deforme, come ce lo hanno rivelato bello e grazioso più dei figli degli uomini? Dove troviamo che è deforme? Interroga Isaia: Lo abbiamo visto: egli non aveva più bellezza nè decoro. Queste affermazioni scritturistiche sono come due trombe che suonano in modo diverso ma uno stesso Spirito vi soffia dentro l’aria. La prima dice: Bello d’aspetto, più dei figli degli uomini; e la seconda, con Isaia, dice: Lo abbiamo visto: egli non aveva bellezza, non decoro. Le due trombe sono suonate da un identico Spirito; esse dunque non discordano nel suono. Non devi rinunciare a sentirle, ma cercare di capirle. Interroghiamo l’apostolo Paolo per sentire come ci spiega la perfetta armonia delle due trombe. Suoni la prima: Bello più dei figli degli uomini: essendo nella forma di Dio, non credette che fosse una preda l’essere lui uguale a Dio. Ecco in che cosa egli sorpassa in bellezza i figli degli uomini. Suoni anche la seconda tromba: Lo abbiamo visto e non aveva bellezza, né decoro: questo perché egli annichilò se stesso, prendendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini, riconosciuto per la sua maniera di essere, come uomo. Egli non aveva né bellezza né decoro, per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza, quale decoro? L’amore della carità; affinchè tu possa correre amando e possa amare correndo. Già sei bello: ma non guardare te stesso, per non perdere ciò che hai preso; guarda a colui dal quale sei stato reso bello. Sii bello in modo tale che egli possa amarti»[24].
Che quella di Gesù Cristo sia una bellezza assolutamente unica e singolare, non semplicemente apparente o corporea, Agostino lo conferma nella Città di Dio: «La bellezza di Cristo è tanto da amare e da ammirare, quanto meno è una bellezza corporea»[25].
Nel commento a diversi Salmi (44; 95; 103…) e in alcuni Sermoni (44; 62; 95; 138; 254…), Agostino riprende questi pensieri trasformandoli in tema nuziale: Cristo, lo sposo, per amore della Chiesa-sposa, si è abbrutito (foedus factus est) ed è divenuto, come lei, anch’egli deforme (deformis factus est), per rendere, col suo amore e col suo sacrificio, bella la sposa, per arricchirla della sua bellezza (ut faceret pulchram).
Proseguendo nella nostra ricerca, registriamo l’interessante posizione a riguardo di Cirillo di Alessandria, che la proporrà anche in seno alla disputa con i Nestoriani. Volendo precisare la portata dell’Incarnazione, così afferma: «L’immagine dell’invisibile Dio (Col 1, 15), l’irradiazione dell’essere del Padre e l’impronta della sua sostanza (Eb 1, 3) ha assunto forma di servo (Fil 2, 7) non annettendosi un uomo, come dicono i Nestoriani, ma dando a se stesso questa forma pur conservando contemporaneamente la sua somiglianza col Padre»[26].
Per Cirillo, dunque, il mistero dell’Incarnazione sta proprio nella straordinaria manifestazione, sul volto umano di Gesù, della gloria di Dio:
«E Dio che disse: ‘Rifulga la luce dalle tenebre’ (Gen 1, 3), rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo (2 Cor 4, 6). Osserva come ‘sul volto di Cristo’ brilla la luce della divina e ineffabile gloria di Dio Padre. Infatti il Figlio unigenito mostra in se stesso la gloria del Padre anche dopo essere divenuto uomo. Solo così e non diversamente egli viene riconosciuto e chiamato il Cristo. Altrimenti ci spieghino i nostri avversari come un uomo comune potrebbe mostrarci la luce della gloria divina. Infatti noi non possiamo vedere Dio in forma umana, tranne e unicamente che nel Verbo incarnato divenuto uguale a noi, che anche in quanto divenuto carne resta per sua natura veramente il Figlio»[27].
Lo stesso Cirillo, commentando il detto di Mt 11, 27, afferma: «Il Figlio unigenito ci mostra la straordinaria bellezza di Dio Padre, presentando se stesso quale immagine luminosa di lui. Per questo dice anche: “Chi vede me vede il Padre”»[28].
Il Padre Alessandrino non dimentica, però, l’altra dimensione, quella della sofferenza che sfigura il volto di Cristo; afferma dunque che proprio nella sua “estrema non-bellezza” appare la vera e straordinaria bellezza di Dio, nell’abbassamento estremo fino alla perdita di ogni bellezza si rivela e si rende visibile la grandezza e la bellezza dell’amore di Dio.
Tra i sostenitori della bellezza di Gesù Cristo possiamo annoverare altre eccellenti personalità della Chiesa antica. Citiamo, solo per fare qualche esempio, Efrem Siro, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Teodoreto, Girolamo[29].
A partire dal VI secolo si moltiplicano, poi, le descrizioni, sempre più dettagliate, dell’aspetto fisico di Cristo: sia in testi che vorrebbero descrivere le sue caratteristiche fisionomiche sia in documenti che ci descrivono, invece, manufatti che lo rappresentano, si hanno descrizioni quasi ritrattistiche, in cui sono presenti, come costanti, alcuni tratti somatici, divenuti poi elementi di identificazione della figura del Salvatore.
Una prima significativa descrizione si ha nell’Anonimo Piacentino, che riporta un Itinerarium compiuto in Terrasanta intorno al 570. L’anonimo pellegrino dichiara di aver visto a Gerusalemme, nel Pretorio di Pilato, un ritratto di Cristo che risaliva ai tempi della sua vita terrena. Così viene descritta la figura di Gesù: «Il piede bello, regolare, sottile; la statura comune, la faccia bella, i capelli inanellati, le mani formose, le dita lunghe: questi sono i caratteri del ritratto mentre lui era vivo e collocato poi nello stesso Pretorio»[30].
Sempre al VI secolo si deve un altro testo, attribuito a Elpidio Romano: «Bella statura, sopracciglia congiunte, begli occhi, naso prominente, capigliatura crespa e colorita, barba nerastra, pelle color del grano, aspetto simile a quello della madre, dita allungate, voce bella, eloquio dolce, molto semplice, tranquillo»[31].
Nel secolo successivo va collocata la testimonianza di Massimo il Confessore (+662) il quale, nella Vita di Maria, commentando il versetto di Lc 2, 52, così descrive Gesù: «Egli era anche bello corporalmente, ‘di una bellezza superiore a quella dei figli dell’uomo’ (Ps 44,3), come dice il Profeta: meraviglioso nelle sue proporzioni, elegante nella misura della sua statura, convenientemente snello, dolce e sereno nella parola»[32].
Suggestiva è la descrizione che troviamo in una recensione della Vita di Maria di Epifanio Monaco, risalente al IX secolo:
«Gesù era di circa sei piedi [circa m 1.70], con capigliatura bionda e un po’ ondulata, sopracciglia nere non del tutto arcuate, con una leggera inclinazione del collo in modo che il suo aspetto non era del tutto perpendicolare, col viso non rotondo ma alquanto allungato, come quello di sua madre, alla quale, del resto, egli rassomigliava in tutto»[33].
In Occidente, infine, riscuote molta attenzione e diffusione un documento, spacciato per antico ma risalente probabilmente al XIII secolo, che viene conosciuto come Lettera di Lentulo.
Lentulo sarebbe stato un ufficiale romano che prestava servizio in Palestina ai tempi di Tiberio Cesare. Ammirato dalle opere compiute da Gesù, avrebbe scritto al Senato Romano la sua famosa lettera. In essa si dà questa descrizione di Gesù:
«E’ un uomo di media altezza, grazioso, dall’aspetto dignitoso. Chi lo guarda lo può amare e temere. I capelli sono color nocciola avellana non matura e scendono dolcemente fino alle orecchie, dove si trasformano in anelli ricciuti, alquanto più cerulei e appariscenti, ondeggianti sulle spalle. La testa è pettinata in due parti a metà, alla maniera dei Nazirei. La fronte è ampia e molto distesa; la faccia è senza rughe o difetto; ed è resa bella da un tono di rosso. Il naso e la bocca sono impeccabili; la barba è densa e presenta il colore dei capelli; non è lunga, ma un po’ biforcata al mento. L’espressione è semplice e matura, gli occhi azzurri, variopinti e chiari (…) Di statura slanciato e retto, con mani e braccia piacevoli a vedersi. Grave nel parlare, riservato e modesto, tale da essere chiamato giustamente, al dire del Profeta: il più bello dei figli degli uomini»[34].
Il grande teologo del Medioevo cristiano, San Tommaso d’Aquino, commentando il Salmo 44 e riferendosi al Cantico dei Cantici (1, 16), illustra ben quattro possibili significati dell’aggettivo speciosus attribuito a Cristo: Egli fu sempre bello conformemente con la sua dignità, ma fu deformato fisicamente nella Passione[35].
Nella Summa, trattando delle appropriazioni delle tre Persone Divine, afferma “Species autem, sive pulchritudo, habet similitudinem cum propriis Filii”. Spiega, quindi, come le tre caratteristiche della bellezza (integritas sive perfectio, proportio sive consonantia, claritas) si addicano pienamente al Figlio, giacchè Egli possiede perfettamente e pienamente la stessa natura del Padre, è la sua immagine manifestata al mondo, è il Verbo, luce del mondo e splendor intellectus[36].
3. Testimonianze antiche sulle rappresentazioni o immagini di Cristo
Già nel III secolo si rintracciano testimonianze scritte che attestano la presenza di immagini di Cristo, alcune delle quali ritenute “acheropite”, cioè non fatte da mani di uomo e dunque prodotte in maniera prodigiosa.
Ireneo, ad esempio, parlando della setta gnostica di Carpocrate, i cui seguaci erano chiamati Carpocraziani, afferma che essi «si denominano gnostici e hanno alcune immagini dipinte, altre fabbricate con altro materiale, dicendo che sono l’immagine di Cristo fatta da Pilato nel tempo in cui Gesù era con gli uomini»[37].
Secondo alcune fonti antiche sarebbe stata collocata una immagine di Cristo anche nel larario dell’imperatore Alessandro Severo[38].
Famosa più di altre è la presunta rappresentazione di Cristo e dell’emoroissa di cui parla Eusebio di Cesarea nella lettera all’imperatrice Costanza, la quale si rivolge a lui per farsi mandare una immagine di Cristo. Eusebio risponde negativamente motivando il suo rifiuto:
«Tu mi scrivi relativamente a una certa icona di Cristo col desiderio che io te ne mandi una: di quale parli e di che qualità dev’essere quella che tu chiami icona di Cristo? (…) Quale icona di Cristo cerchi tu? La vera, immutabile immagine, che per sua natura porta i tratti di Cristo, oppure quell’immagine che egli ha assunto per amore nostro, quando prese la forma di servo? (…) Così certamente ti muove il desiderio dell’icona della sua forma di servo, della povera carne, quindi, con la quale egli si è rivestito per amore nostro. Ma noi di questa abbiamo appreso che è stata mischiata con la gloria di Dio, che il mortale è stato inghiottito dalla vita»[39].
Lo stesso Eusebio conosceva rappresentazioni di Cristo, sia immagini che sculture, come quella di Paneas, ritenute da lui espressioni di paganesimo[40].
Molti scrittori cristiani si rifanno, per secoli, al testo della lettera di Eusebio per comprovare la presenza di una statua di Cristo già nell’antichità. Il gruppo bronzeo di cui parla Eusebio, in realtà, doveva rappresentare non Cristo e l’emorroissa, bensì Esculapio e Igea[41].
Ma veniamo alle immagini di chiara matrice cristiana, anzi addirittura ritenute opera dello stesso Cristo, e prodotte miracolosamente, come, appunto, le cosiddette immagini “acheropite”. L’Anonimo Piacentino racconta di aver visto due suggestive immagini di Cristo: una a Menfi, in Egitto, e l’altra a Gerusalemme nel Pretorio di Pilato.
La prima è costituita da un lino, con cui Cristo si sarebbe asciugato la faccia:
«Là noi vedemmo un panno di lino, nel quale è impressa l’immagine del Salvatore. Si dice che quando era vivo si sia terso con quel panno il volto, lasciandovi la sua immagine. Oggi questo panno viene venerato; e anche noi lo venerammo; ma per lo splendore che da esso emanava non potemmo guardarlo, e quanto più cercavamo di guardarlo tanto più si mutava davanti ai nostri occhi»[42].
La seconda è l’immagine che viene vista nel Pretorio di Pilato: si tratta di un ritratto del corpo intero di Gesù, e da essa probabilmente viene tratta la mensura Christi che i messi di Giustiniano adoperano per poi fissarla nella Croce mensurale, custodita in S. Sofia a Costantinopoli.
Due immagini ritenute anch’esse acheropite godono in Oriente una fama assoluta, finchè di esse non si perde traccia: l’Acheropita di Camuliana e quella di Edessa o Mandylion, che diventerà anche la più famosa, perché la sua presenza è accompagnata da numerose testimonianze letterarie ed attestata almeno fino al 1204, cioè al saccheggio di Costantinopoli, ove era custodita.
Non ci soffermiamo sulla prima immagine, di cui non si hanno più notizie già nella prima metà del VII secolo.
Ben più documentata è l’altra immagine acheropita, cioè il Santo Mandylion di Edessa, che esercita un notevole influsso non solo in Oriente ma anche in Occidente, e che alcuni studiosi avvicinano o addirittura identificano con la Sindone di Torino.
Le origini di questa prodigiosa immagine vengono descritte nella Leggenda di Abgar di Edessa[43]. Abgar V, toparca di Edessa è ammalato di lebbra. Sentendo parlare dei prodigi compiuti da Gesù gli invia un pittore, Anania, per chiedergli, attraverso la lettera che lo stesso Anania recapita, di avere un suo ritratto, da cui spera di essere guarito. Anania non riesce a ritrarre Gesù, il quale si lava il volto e si asciuga con un asciugamani (questo il significato di mandylion), su cui rimane impressa la sua immagine. Gesù avrebbe quindi consegnato ad Anania quell’immagine prodigiosa insieme ad una lettera per Abgar. Questi, ricevendo la lettera e il Mandylion, viene guarito dalla lebbra e si fa battezzare dall’apostolo Taddeo.
Il Mandylion e la lettera di Cristo vengono gelosamente custoditi ad Edessa: il primo in una nicchia sulla porta principale della città, l’altra in un prezioso cofanetto depositato presso gli archivi cittadini, come attestano sia Eusebio sia Egeria, nel suo Diario di viaggio[44]. L’immagine acheropita, fatta murare in un periodo di pericolo per la città, viene riscoperta nel 544, come racconta Evagrio Scolastico intorno all’anno 590[45]. Il racconto di Abgar, e la corrispondenza con Gesù, conoscono un’ampia diffusione e vengono ripresi negli scritti di numerosi Padri, tra cui Giovanni Damasceno, i tre Patriarchi d’Oriente che inviano una lettera all’imperatore iconoclasta Teofilo (836), i Padri del Concilio Niceno II.
Quando Edessa viene conquistata dai musulmani, l’imperatore bizantino Romano I riesce a riscattare a caro prezzo sia il Mandylion che la lettera inviata da Cristo ad Abgar: le due “reliquie” approdano così a Costantinopoli nel 944 e la sacra immagine viene collocata nella chiesa della Madre di Dio, detta “del Faro”.
Con la conquista latina di Costantinopoli, avvenuta nel 1204, si perdono le traccie delle tante preziose reliquie raccolte nella capitale. Tra queste anche il Mandylion. In un racconto, lasciato da un cavaliere piccardo che partecipa alla IV Crociata, si ha questa descrizione: «Fra queste altre chiese vi è un’altra che si chiama Signora Santa Maria di Blacherne, dove si trovava la sindone che aveva avvolto Nostro Signore, che ogni venerdì veniva esposta dispiegata, tanto che si poteva ben vedere la figura di Nostro Signore»[46]. Ma in questa descrizione si tratta del Mandylion o di un’altra reliquia? E’ lo stesso Mandylion che viene poi portato in Occidente e conosciuto come Sindone di Torino, oppure dobbiamo pensare a due immagini acheropite ben distinte?
E la vicenda leggendaria della Veronica, diffusa in Occidente, non può essere dunque, con buona probabilità, la versione latina di quella orientale del Mandylion di Edessa?[47].
Non possiamo approfondire la complessa ed affascinante problematica in questa sede; ci basti, però, sottolineare il fatto che le immagini acheropite di Cristo esercitano un influsso assolutamente unico in tutta l’arte cristiana, e determinano una sempre maggiore convergenza verso un unico tipo di rappresentazione di Cristo[48].
4. La figura di Cristo nelle rappresentazioni artistiche
Dopo questo sintetico ma necessario excursus storico-letterario, proviamo ora a identificare le principali tipologie iconografiche che l’arte cristiana ha adottato per rappresentare la figura di Cristo, descrivendolo come prototipo di bellezza o, al contrario, brutto e sfigurato dai dolori della Passione. Tralasciamo qui tutta la problematica relativa alla rappresentabilità di Cristo, uomo e Dio, che esplode nella vicenda iconoclasta e trova una prima, decisiva risposta nel II Concilio di Nicea del 787[49].
Dal punto di vista iconografico possiamo operare una prima distinzione tra due tipi fondamentali di rappresentazione: il Cristo giovanile, imberbe; e quello adulto o anziano, barbato. Possiamo inoltre distinguere le rappresentazioni di Cristo in tipi ideali (buon pastore, filosofo) e in tipi storico-narrativi (taumaturgo, crocifisso…).
Rivolgeremo, quindi, maggiore attenzione alle rappresentazioni che ci propongono un Cristo “bello” e a quelle che, al contrario, ci mostrano un Cristo “brutto” o sfigurato.
4.1 Il Cristo giovanile e imberbe, il Buon Pastore
Gli artisti dell’antichità cristiana ripresero e mutuarono dalle contemporanee rappresentazioni di divinità pagane tre possibili modelli per rappresentare Cristo: «il fanciullo divino dalla giovinezza perenne, la figura luminosa di Apollo e la solenne maestosità di Giove dalla barba e dai capelli fluenti»[50].
La rappresenzazione di Cristo come uno dei Genii dell’olimpo pagano si spiega probabilmente con la volontà di manifestare ed «attestare il dogma dell’eterna preesistenza di Cristo e la sua natura divina superiore a tutte le figure degli dèi pagani»[51]. Raffigurandolo invece come Zeus-Giove, gli artisti cristiani vollero tradurre la sua qualità di sovrano dell’universo, giudice del mondo che ritornerà alla fine dei tempi. Se, infine, Cristo è “luce da luce”, come recita il Credo, ed irradiazione della gloria del Padre, allora può essere raffigurato riprendendo le caratteristiche iconografiche di Apollo, il dio della luce, figlio di Giove, prototipo di bellezza.
Le prime e più antiche rappresentazioni iconografiche di Cristo non si prefiggono certo lo scopo di rappresentare l’aspetto terreno di Gesù di Nazareth. Gli affreschi delle catacombe, i rilievi dei sarcofagi, alcuni mosaici absidali, ci mostrano il più delle volte una figura di adolescente o di giovane, imberbe, dai capelli riccioluti, raffigurato in tal modo sia in contesti narrativi, ad esempio per l’illustrazione di miracoli, sia in contesti ritrattivi, in particolare nei rilievi dei sarcofagi dove Cristo è collocato tra gli apostoli.
Primeggia nella primitiva arte cristiana la raffigurazione simbolica di Cristo come Buon Pastore. Pensiamo ai numerosissimi affreschi delle catacombe, alla famosa statua a tutto tondo, perla dei Musei Vaticani, ai tanti bassorilievi che ripetono il tema sui sarcofagi. Gesù è raffigurato come un giovane pastore, spesso imberbe o con barba molto rada, dai capelli corti, di bell’aspetto e dalla statura slanciata, vestito di corta tunica e con i calzari tipici dei pastori, che reca sulle spalle una pecorella o un agnello, mentre altre pecore si affiancano a destra e sinistra. Oltra alla celebre statua, che non è comunque l’unica del genere, ricordiamo anche il sarcofago con Cristo e gli apostoli in cui Gesù è al centro, vestito da pastorello, e con un bastone nella sinistra, sempre ai Musei Vaticani. Sono famosi, poi, gli affreschi che lo rappresentano in tal modo nelle catacombe di Priscilla, di San Callisto, Domitilla etc. Celebre anche il mosaico del Buon Pastore del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, risalente al V secolo, in cui Cristo, imberbe e dalla lunga chioma riccioluta, appare adagiato su una roccia tra sei agnelli, mentre con la destra regge una grande croce aurea.
Il Cristo giovanile compare anche in scene narrative, che si riferiscono soprattutto ad episodi di miracoli o al ciclo della Passione. Pensiamo, ad esempio, alla slanciata ed agile figura di Cristo nel miracolo dell’emorroissa, affrescata nelle catacombe di Marcellino e Pietro, o alle scene di miracoli del cimitero anonimo di via Anapo, in cui è particolarmente suggestiva la figura di Gesù che compie la moltiplicazione dei pani toccando le ceste con la virga.
Ma il Cristo adolescente o giovanile, dai tratti davvero belli e affascinanti, di una bellezza apollinea, compare ancora più spesso su alcuni sarcofagi di epoca paleocristiana. Nel famoso sarcofago di Giunio Basso Cristo è un giovinetto dai capelli riccioluti, seduto come Kosmokrator su un solenne trono, sotto cui compare la raffigurazione del coelus, ed è ritratto frontalmente mentre compie il gesto della Traditio legis, avendo Pietro e Paolo a destra e sinistra. Nello stesso sarcofago Cristo appare, con le stesse fattezze, in scene del ciclo della Passione: l’entrata in Gerusalemme, la sua cattura e il confronto con Pilato. Anche su un altro famoso sarcofago, quello cosiddetto della Passione, della metà del IV secolo, proveniente da Domitilla ed ora anch’esso ai Musei Vaticani, Gesù viene raffigurato con le stesse fattezze. Nelle scene del Cristo incoronato di spine (in realtà di alloro), e del Cristo portato in giudizio davanti a Pilato, Gesù appare a figura intera, rivestito di tunica e pallio, ha capelli corti e riccioluti, ha il volto di un adolescente imberbe. Gli esempi si possono moltiplicare pressocchè all’infinito, per quanto riguarda l’epoca paleocristiana e altomedievale.
Ricordiamo soltanto, oltre ai rilievi dei sarcofagi, gli splendidi mosaici ravennati, in cui alcune scene, come ad esempio il Cristo del catino absidale di San Vitale o il Cristo che giudica tra pecore e capri in Sant’Apollinare Nuovo, ci mostrano una figura con fattezze giovanili, accanto a riquadri nei quali, al contrario, viene raffigurato come un adulto con barba.
Il Cristo giovanile e imberbe comparirà spesso, poi, nell’arte carolingia e persisterà in Occidente fino agli inizi dell’XI secolo, soprattutto in avori e miniature raffiguranti il Cristo Creatore dell’Esamerone o il Cristo dell’Apocalisse. Ma dalla prima metà dello stesso XI secolo in poi assistiamo ad un brusco cambiamento: Cristo non appare più col volto di un giovane imberbe, ma sempre come adulto, dal volto maturo e grave, e barbato. Il cambiamento si avverte soprattutto dove il tipo giovanile era quello adoperato più frequentemente, come a Reichenau[52].
4.2 Il Cristo adulto e barbato, il Pantokrator e il Volto Santo
Accanto a questa tipologia, come accennato, se ne trova un’altra che vuole Cristo rappresentato come adulto, o anche anziano, con barba e lunga capigliatura.
Il tipo maturo e barbato si ritrova già in epoca paleocristiana, a partire dal IV secolo, in scene in cui Cristo assume la fisionomia e le fattezze dei Saggi dell’antichità, dei Filosofi o anche quelle di alcune divinità dell’antichità pagana, come Zeus-Giove ed Apollo. L’aspetto si fa solenne e maestoso, talvolta anche severo.
Con tali fattezze compare anche in immagini-ritratti, in immagini, cioè, sganciate da riferimenti narrativi o simbolici. Tra le primissime raffigurazioni di questo tipo abbiamo il famoso affresco della catacomba di Commodilla, databile tra la fine del IV e gli inizi del V secolo: in un pannello che simula quasi un soffitto a cassettoni vediamo il mezzo busto di Cristo, evidentemente sovrapposto alla decorazione esistente, che qui ha l’aspetto di un uomo maturo, con lunghi capelli spartiti nel mezzo e folta barba che copre il mento e la gola. Lo sguardo è fisso, inclinato verso la destra di chi guarda. Il capo è circondato da un nimbo fiancheggiato dalle lettere apocalittiche Α e ω. E’ una delle primissime raffigurazioni occidentali del Cristo barbato.
Una simile raffigurazione di Cristo, ma collocata in un diverso contesto iconografico, si ha nelle catacomba dei SS. Marcellino e Pietro: sulla volta di una cripta dove si riteneva fossero sepolti i Martiri della catacomba, Cristo appare seduto in trono, barbato e con aureola affiancata dalle lettere apocalittiche. Accanto a lui, rispettivamente alla sua sinistra e alla sua destra, troviamo gli Apostoli Pietro e Paolo. Nel registro inferiore dell’affresco quattro santi acclamano a Cristo-Agnello Mistico, collocato su una altura, da cui scaturiscono i quattro fiumi del Paradiso.
Questo tipo di raffigurazione doveva ritrovarsi anche in molte absidi delle basiliche romane, in cui campeggia sempre un Cristo, a figura intera o soltanto col busto, barbato e adulto. Per citare gli esempi tra i più antichi e meno rimaneggiati, ricordiamo i mosaici delle chiese romane di S. Pudenziana e dei SS. Cosma e Damiano, o quello più tardo dell’oratorio di San Venanzio nel Battistero Lateranense. Ma tale iconografia di Cristo doveva sicuramente apparire anche nelle absidi della più grandi basiliche costantiniane, a cominciare dalla Cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano.
Questa tipologia trova, almeno a partire dal VI secolo, la sua piena consacrazione nell’arte dell’Oriente cristiano, dove le diverse immagini di Cristo confluiscono in un’unica tipologia, quasi a voler definire una fisionomia tipica, quasi ritrattistica, di Cristo, immediatamente riconoscibile da tutti. E’ il cosiddetto Pantokrator bizantino, che troviamo già definito nei suoi tratti essenziali in opere d’arte del VI e VII secolo, come ad esempio la famosa icona del monastero di S. Caterina sul Sinai o il mosaico della Trasfigurazione nell’abside della chiesa dello stesso monastero, le miniature dei Vangeli siriani di Rabula, ora custoditi a Firenze, le ampolle di Terra Santa conservate a Monza e Bobbio, le monete di Giustiniano II.
Cristo ha l’aspetto grave e solenne di un uomo in età matura, ha folta capigliatura divisa a metà della fronte, barba che copre abbondantemente il mento e baffi con le punte rivolte all’ingiù per unirsi alla barba. Talvolta, come nell’icona del Sinai, il volto di Cristo presenta delle asimmetrie, interpretate come espressione del dogma della duplice natura, divina ed umana, di Cristo[53].
Questo “ritratto” di Cristo, che ben presto si impone come l’unico modello, da ripetere all’infinito nelle icone come negli affreschi delle chiese, risente evidentemente di una spiritualità fortemente monastica, per cui la severità del volto ascetico di Cristo rimanda alla fisionomia dei monaci orientali, alle loro figure ascetiche e gravi.
Ma la ragion d’essere di questa tipologia come pure le ragioni della sua affermazione pressocchè assoluta sono da rintracciare in un altro motivo: essa viene sempre più compresa e venerata come quella più vicina al volto storico di Cristo, trasmesso alle generazioni cristiane, oltre che attraverso i testi che abbiamo precedentemente esaminato, grazie alle immagini “acheropite”, cioè al Mandylion di Edessa e alla Camuliana. Partendo da questi prototipi “non dipinti da mani d’uomo” si diffondono in Oriente le immagini del cosiddetto Volto Santo, in cui non si rappresenta più Cristo a figura intera o a mezzo busto, ma si ha soltanto il suo volto, circondato da un nimbo cruciforme.
Una stessa fisionomia del volto di Gesù viene dunque trasmessa fedelmente, attraverso le due tipologie del Volto Santo e del Pantokrator.
Questa immagine “standard” di Cristo si diffonde poi anche in Occidente e il Pantoktaror ritorna a primeggiare prepotentemente nell’arte occidentale dall’XI secolo, ma talvolta con i tratti in qualche modo addolciti e “occidentalizzati”, resi più umani da alcune caratteristiche fisionomiche. Compare così affrescato o mosaicato nelle absidi (non si possono non ricordare le straordinarie immagini di Monreale e Cefalù); scolpito nelle lunette dei portali delle chiese romaniche e poi di quelle gotiche, o nelle statue a tutto tondo poste sulle facciate o sugli altari delle chiese.
Il Volto Santo delle icone orientali assume in Occidente una diversa denominazione, è il velo della Veronica, e come tale viene raffigurato, sempre sorretto dalla leggendaria figura di donna al seguito del Maestro.
Cambiano gli stili, cambiano le tecniche artistiche, ma l’immagine di Cristo rimane fondamentalmente la stessa, fedele alle stesse caratteristiche fisionomiche.
Le acheropite dell’Occidente, a cominciare da quella del Laterano per arrivare alla stessa Veronica, senza dimenticare la preziosa e unica immagine a figura intera della Sindone di Torino, costituiscono i prototipi indiscussi delle copie e riproduzioni che si moltiplicano all’infinito, trasformandosi spesso in altrettante acheropite e reliquie.
Il volto di Cristo riprodotto dalle arti esprime una solenne bellezza, manifesta il mistero della sua persona, evoca le sembianze che la tradizione attribuiva a Gesù di Nazareth, confermate dalle immagini “acheropite”.
Se le più antiche immagini del Cristo adolescente o giovanile ed imberbe, dalla bellezza apollinea, intendevano probabilmente esprimere e manifestare la sua eternità, la sua eterna giovinezza quale Logos eterno di Dio, le immagini di Cristo adulto e barbato rimandavano invece alla pienezza di umanità e di saggezza, di perfezione umana unita alla onnipotenza divina.
In ogni caso, nell’ambito di queste diverse tipologie rappresentative, Cristo è raffigurato come modello, prototipo, tipo della perfezione e della bellezza scaturita dall’incontro tra la divinità e l’umanità. Anche le caratteristiche “imperiali” attribuite alla figura di Cristo e al contesto rappresentativo rafforzano potentemente tale convinzione.
Sarebbe necessario ben altro spazio per ricordare solo alcuni tra i numerosissimi esempi che illustrano quanto detto. Ci limitiamo, così, solo a ricordare alcune rappresentazioni che in qualche modo riassumono le tipologie di raffigurazione di Cristo come prototipo di bellezza, secondo i canoni estetici rintracciati finora. Ci riferiamo alle famose statue del Cristo denominato, appunto, “Beau Dieu”, e che troviamo, ad esempio, nel portale sud della cattedrale di Chartres, nel portale ovest di Notre-Dame di Amiens o nel portale nord della cattedrale di Reims.
La figura di Cristo che domina sul pilastro centrale del portale sud di Chartres, scolpita intorno al 1210, è un mirabile esempio di simmetria e di geometrica bellezza: «Questa figura è divina nelle sue proporzioni belle, chiare ed equilibrate. Questo viso potrebbe essere concepito come norma fondamentale di tutta la creazione, come struttura base del creato, concentrata in una figura umana»[54].
Non possiamo non accennare alla bellezza di Cristo così come viene proposta nel Rinascimento, da due figure gigantesche, Michelangelo e Raffaello, che propongono il loro ideale umanistico di bellezza quando rappresentano la figura di Gesù di Nazareth.
Michelangelo, col Cristo del Giudizio nella Cappella Sistina (1536-1541) e Raffaello col Cristo della Disputa (1509-1510), solo per citare gli esempi più famosi, ci offrono due immagini straordinarie in cui il motivo della bellezza divino-umana di Cristo viene tradotta e rappresentata, passando per il filtro della diversa sensibilità artistica dei due genii, attraverso i canoni della bellezza idealizzata dall’umanesimo: il corpo nudo è quello di un eroe classico, di apollinea perfezione, che risplende di raggi luminosi, sfolgorante di bellezza. La riscoperta del mondo classico e delle opere d’arte antica, che costituiscono uno degli elementi fondamentali del Rinascimento, giocano evidentemente un ruolo notevole nell’arte dal XV-XVI secolo. La rappresentazione di Cristo e della sua bellezza ne risente fortemente.
Nello stesso periodo, però, scopriamo altre interessanti linee di ricerca artistica, volte anch’esse a manifestare la bellezza di Cristo, in particolare del Risorto. Pensiamo ad un famoso esempio: la Resurrezione di Grünewald (1513-1515), uno dei pannelli dell’altare di Isenheim, ora a Colmar. Il Cristo è una figura luminosissima, un sole che sorge a rischiarare le tenebre, con un corpo quasi trasparente, in cui brillano come pietre preziose le ferite della Passione. E’ una visione impressionante, di una bellezza abbagliante, che effonde pace.
4.3 Il Cristo “brutto” o deforme
Passiamo, ora, a considerare quella che potremmo definire la “corrente minoritaria”, il filone artistico corrispondente a quello teologico-letterario, in cui Cristo viene rappresentato con caratteristiche opposte, e dunque come “brutto”, cioè sfigurato e deformato dai dolori e dalle sofferenze della Passione e Morte.
La tipologia compare in Oriente, in Siria e Palestina, intorno al VI secolo. Uno dei primi esempi ci viene dato dalle immagini dipinte su una cassetta porta reliquie (pietre provenienti dai Luoghi Santi della Palestina), custodita nei Musei Vaticani e già custodita nel Sancta Sanctorum del Laterano, databile al VI secolo. Nella scena della Crocifissione, posta al centro della tavoletta, il volto di Cristo, dipinto con pochi capelli, e contornato da una linea scura, rivela l’intenzione dell’artista di mostrarlo sfigurato dalle sofferenze della Crocifissione. Ma per mostrare, contemporaneamente, la sua dignità, l’artista riveste tutto il corpo di Cristo con il colobium.
Allo stesso periodo vengono assegnati alcuni avorii costantinopolitani, in cui la figura di Cristo è caratterizzata da tratti decisamente brutti e sgraziati. Sembra che a Costantinopoli, per un certo tempo, alcuni laboratori artistici abbiano volutamente diffuso il modello di un Cristo dall’aspetto brutto, sfigurato[55]. L’esempio più famoso è il dittico di Berlino, in cui Cristo è raffigurato secondo la tipologia dell’Antico dei giorni: è un vegliardo, con grandi orecchie svasate che sporgono dai capelli come manici di una brocca, naso grosso, soppracciglia spioventi. Tanto è brutta e sgradevole questa figura, quanto è armoniosa e bella quella del Cristo Bambino, seduto sulle ginocchia della Madre, nell’altro pannello del dittico.
Il tipo non ha, evidentemente, molta fortuna e viene forse ripreso in copie grossolane di avorii bizantini, prodotte in Gallia intorno all’VIII secolo.
Si ritrova, tuttavia, in alcuni Salterii bizantini del IX secolo, come il Salterio Chludov, ora a Mosca, in cui si vuole evidenziare la realtà dell’Incarnazione dipingendo nelle miniature marginali un Cristo brutto, ed assorto in occupazioni banali.
Anche in Occidente non mancano esempi di questo filone iconografico, pur se sporadici. E’ il caso del cosiddetto Maestro di Echternach, un anonimo intagliatore d’avorio che raffigura il Cristo Crocifisso, ad esempio nella copertina dei Vangeli di Echternach, con tratti decisamente brutti e sgradevoli: occhi sporgenti, naso a punta e schiacciato, zigomi sporgenti, orecchie vistose, mento sfuggente.
Ma le espressioni di maggiore bruttezza e deformità di Cristo si ritrovano più numerose nelle rappresentazioni della Passione e Morte. In esse, evidentemente, non è la eventuale bruttezza fisica costitutiva di Cristo che viene messa in risalto, come in certi testi patristici prima ricordati, bensì il suo corpo reso deforme e sfigurato dalle torture e dalle sofferenze subìte fino alla Crocifissione. Ad alimentare questa tendenza artistica, ben diffusa per tutto il Medioevo ed oltre, concorrono sensibilmente nuove istanze spirituali, espresse principalmente da nuovi ordini religiosi.
Con San Bernardo, e poi con Francescani e Domenicani, la predicazione sollecita la dimensione affettiva ed emotiva e dunque verte soprattutto sull’umanità di Cristo, sulla considerazione delle sofferenze patite da Cristo e sulle sue piaghe, attraverso le quali ci viene donata la salvezza e il perdono. Per rendere più efficace la predicazione rivolta al popolo, gli Ordini Mendicanti sottolineano, dunque, maggiormente la dimensione umana di Cristo, le cui sofferenze vengono visualizzate ed offerte alla compassione e alla contemplazione della gente proprio attraverso le tante opere d’arte, soprattutto pitture e sculture, che mostrano al popolo le carni straziate dalle torture, le piaghe causate dalla Crocifissione, i segni evidenti della Passione, il sangue versato fino all’ultima goccia. Si vuol così suscitare emozione, compassione, partecipazione affettiva ed intensa alle sofferenze di Cristo, per essere poi degni e veramente partecipi della gioia e della vittoria della Resurrezione.
Le rappresentazioni dei vari momenti della Passione si moltiplicano quasi all’infinito, e si scelgono per tali rappresentazioni i momenti più cruciali e più tristi della vicenza umana di Cristo: l’arresto, il processo davanti a Pilato e l’Ecce Homo, lo scherno dei soldati, la fustigazione e la coronazione di spine, la salita al calvario con le tre cadute, ma soprattutto la crocifissione, la morte in croce, la deposizione. Nascono e si diffondono anche nuove immagini, come paradigmi di tutte le sofferenze subite: l’Imago Pietatis o Vir dolorum, che comunque riprende il tema bizantino del Nynphios; la cosiddetta Messa di San Gregorio e le Arma Christi; la Pietà, in cui il corpo di Cristo già morto appare accasciato tra le braccia della Madre, in una scena ormai isolata dal contesto storico della Crocifissione.
Prendiamo in considerazione, a mò di esempio, proprio quest’ultimo soggetto iconografico. Intorno al XIV secolo, a partire dalla Renania, si diffonde, soprattutto attraverso la scultura, una immagine di Cristo deposto sul grembo della Madre, che genera pietà e produce un forte impatto emotivo per i suoi tratti così realisticamente tragici e sfigurati. Tra gli esempi più famosi citiamo la cosiddetta Pietà Röttgen, al Provinzialmuseum di Bonn, databile al 1350-1370. Sulle ginocchia di Maria, dal volto affranto di dolore, vediamo il corpo scheletrico di Cristo, con il capo fortemente reclinato all’indietro e circondato dalle lunghe spine della corona. Il suo volto, ad occhi chiusi, è segnato da una smorfia di dolore e sembra quasi staccarsi dal resto del corpo. Dalle piaghe del fianco, delle mani e dei piedi scaturiscono fiotti di sangue, disposti quasi come petali di un fiore.
L’immagine ha una larga diffusione: ovunque viene riprodotta, la figura di Cristo è sempre segnata da evidente sproporzione, appare scheletrica e dinoccolata, spigolosa ed anche raccapricciante per i particolari realistici delle ferite.
A tal proposito non possiamo non ricordare quell’opera straordinaria e impressionante costituita dalla Crocifissione di Grünewald, uno dei pannelli del famoso altare di Isenheim, prima ricordato. La scena occupa il grande pannello centrale dell’altare. Al centro è posta la croce col Cristo morto, che ha alla sua destra la Maddalena, la Madre e l’apostolo Giovanni, alla sua sinistra Giovanni Battista, che indica il Cristo con la destra e regge con la sinistra un libro aperto; alle sue spalle, inoltre, si legge l’iscrizione «Illum oportet crescere, me autem minui» (Gv 3, 30) e ai suoi piedi è rappresentato l’Agnello mistico che versa il sangue in un calice. La figura del Crocifisso è impressionante per il crudo realismo con cui viene rappresentato il corpo straziato e terribilmente deformato. Sono soprattutto le mani e i piedi che, se osservate attentamente, generano quasi fastidio e ribrezzo e da sole possono ben esprimere il più profondo grido di sofferenza e di strazio disumano.
La stessa cosa può dirsi per il corpo di Cristo deposto, rappresentato nel pannello sottostante, collocato sotto la mensa dell’altare. Il volto fa impressione per la sua deforme bruttezza, è una smorfia di sofferenza e di dolore, l’orecchio sinistro è troppo sporgente, proprio come nell’avorio di Berlino, e il volto allungato evoca immediatamente quello dell’Uomo della Sindone. Le mani e i piedi, qui mostrati ancor più evidentemente e a distanza ravvicinata, sono di una crudezza estrema nella loro sofferente deformità. Questa immagine, che pur faceva parte di un altare, rappresenta sicuramente una delle espressioni più estreme del realismo che intende presentare il Cristo come deforme e sfigurato dai dolori della Passione.
L’immagine che può senz’altro competere con quest’ultima è dovuta al pennello di Hans Holbein il giovane. Questi rappresenta il Cristo morto, adagiato sulla lastra tombale. L’opera, datata al 1522, ora al Kunstmuseum di Basilea, rappresenta il Cristo in un nuovo “modo di spietato realismo”[56], in cui viene ancor più evidenziato l’abbandono e l’isolamento del Cristo nella morte, temi che emergono nel periodo della Riforma Protestante. L’opera è sconvolgente, sembra che il corpo del Signore cominci a putrefarsi, i capelli sono spaventosi, la mascella pendente, gli occhi spenti fissano il vuoto. Si narra che il pittore abbia preso come modello il cadevere di un annegato nel Reno.
In alcune scene della Passione, infine, non volendo riprodurre Cristo con forme sfigurate e sconvolgenti, ma volendo comunque rappresentare la crudeltà e la bruttezza dell’evento, si dipingono i personaggi che circondano Cristo con tratti deformi, brutti, grossolani o anche caricaturali.
Conclusione
La riflessione cristiana, a partire da alcuni testi del Nuovo Testamento e dalla rilettura di alcuni brani veterotestamentari, ha sottolineato due aspetti della figura di Cristo: la sua bellezza, innanzitutto spirituale e poi anche fisica, e la sua bruttezza o deformità, manifestazione della sua vera umanità e delle sofferenze patite nella Passione e Morte. Altrettanto ha fatto l’arte cristiana che si è affiancata a tale riflessione e ne è stata il riflesso eloquente. Un primo filone artistico, sicuramente quello di maggior diffusione e successso, ha cercato, dunque, con i mezzi propri dell’arte, di mostrare la bellezza di Cristo, lo splendore della sua divinità attraverso la perfezione delle sue forme umane. Un secondo filone, minoritario ed occasionale, ha invece mostrato un Cristo con fattezze umane non belle e soprattutto un Cristo che nelle scene della Passione si mostra sfigurato, deforme, raccapricciante o commovente, mostrando così, sub contraria specie, la bellezza dell’amore di Dio.
È in tal modo che l’arte cristiana ha proposto un nuovo, singolare ideale di bellezza, che supera quello dell’estetica classica e dell’antica Grecia, ed è capace di sfidare l’urto della bruttezza e del male che deturpa l’uomo ed il creato. È questa, quella del volto di Cristo, l’unica autentica bellezza, l’unica che ha il potere di donare la salvezza all’umanità[57].
Abstract of the article by Mgr P. Iacobone
The Beauty of Christ in Art from Antiquity to Renaissance
This essay has two essential parts. The first looks briefly at the theme of the singular beauty of Christ in the context of the New Testament and the most ancient patristic and historical writings. Two trends emerge: the more widespread concentrates on the physical and spiritual beauty of Christ, Son of God made perfect man; the less common underlines the ugliness and deformity of Christ in order to uphold the reality of the Incarnation and above all to show in the face and body of Christ the doleful disfigurement, the consequence of the Passion.
These currents of thought correspond to as many artistic schools. Christian art, only a few of whose more significant examples are considered, in fact follows these two currents with its own specific expressive means. It either portrays Christ the Beautiful, with a perfect body as prototype of every human beauty, or instead as the Man of Sorrows, the Imago pietatis, disfigured by the sufferings of the Passion, central theme of medieval preaching.
[1] Ricordiamo solo alcune opere più recenti e più utili ad un approfondimento del tema qui trattato: M. Bacci, “Cristo - Iconografia”, in Dizionario Enciclopedico del Medioevo, vol. I, Città Nuova-Cerf-J.Clarke, Roma 1998, 506-508; H. Belting, Das Bild und sein Publikum im Mittelalter: Form und Funktion früher Bildtafeln der Passion, Mann, Berlin 1981; Id., Bild und kult: eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, Beck, München 1990 (tr. it. Il culto delle immagini: storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Carocci, Roma 2001, 71-82 e 255-277); V. Bertolone, Una ricerca interdisciplinare, in Il volto dei volti. Cristo, Velar, Gorle-Bergamo 1997, 12-23; C. Cecchelli, “Il Cristianesimo: Cristo e l’iconografia”, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. IV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma-Venezia 1958, 116-121; Y. Christe, L’image du Christ jeune, in “La Vie spirituelle”, 704, 1993, 189-207 ; Ead., “Cristo”, in Iconografia e Arte Cristiana (Dizionari San Paolo), vol. I, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, 540-547; E. von Dobschütz, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende, J.C. Hinrichs, Leipzig 1899; G. Gharib, Le icone di Cristo. Storia e culto, Città Nuova, Roma 1993; R. Giordani, “Gesù Cristo - iconografia”, in Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, vol. II, Marietti, Casale Monferrato, 1498-1505; A. Grabar, Le vie della creazione nell’iconografia cristiana. Antichità e Medioevo, Jaca Book, Milano 1983; P. Hinz, Deus Homo: das Christusbild von seinen Ursprüngen bis zur Gegenwart, voll. I-II, Evangelische Verlagsanstalt, Berlin 1973 e 1981; J. Kollwitz et al., “Christus”, in Lexikon der christlichen Ikonographie, vol. I, Herder, Roma 1968, 355-454; E. Lavagnino, “Gesù Cristo. VII. Nella iconografia”, in Enciclopedia Cattolica, vol. VI, Città del Vaticano 1951, 273-284; H. Pfeiffer, Ragioni storiche, teologiche e politiche per la tradizione del volto di Gesù nei secoli, in Il volto dei volti. Cristo, vol. II, Velar, Gorle-Bergamo 1998; Id. L’immagine di Cristo nell’arte, Città Nuova, Roma 1986; Id. La storia dell’immagine di Cristo nell’arte, in P. Coda-L. Gavazzi (edd.), L’immagine del divino, Mondadori, Milano 2005, 48-58; G. Schiller, Ikonographie der christlichen Kunst, voll. I-III, Mohn, Gütersloh 1966-1971; P. Szubiszewski, “Cristo”, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, V, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1994, 493-521.
[2] Si veda, ad esempio, C. Schönborn, L’Icona di Cristo. Fondamenti teologici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988.
[3] Cfr. P. Iacobone, Mysterium Trinitatis. Dogma e Iconografia nell’Italia medievale, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1997, 107-110.
[4] Cfr. E. von Dobschütz, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende, cit.; G. Gharib, Le icone di Cristo. Storia e culto, cit.; M. Rizzi, Il corpo redento. Un percorso intellettuale tra tradizioni teologiche e antropologia nel cristianesimo tardoantico, in “Comunicazioni sociali. Rivista di media, spettacolo e studi culturali”, 2, 2003, 158-168.
[5] Origene, Contra Celsum, VI, 75.
[6] Oracoli Sibillini VIII, 256 ss.
[7] Tertulliano, Adv. Marcion., III, 17, 3.
[8] Giustino, Dial. cum Tryph. 36, 6; si veda anche 14, 8.
[9] Atti di Tomaso, 45, in L. Moraldi, Apocrifi del Nuovo Testamento, II, Atti degli Apostoli, Piemme, Casale Monferrato 1994, 353.
[10] Clemente Alessandrino, Stromata, II, 5, 21 (tr. it. Gli Stromati. Note di vera filosofia, Ed. Paoline, Milano 1985, 246).
[11] Ivi, III, 17, 103 (tr. it. Ivi, 423).
[12] Ivi, VI, 17, 151 (tr. it. Ivi, 764); si veda anche Paed. III, 1, 3 e III, 3, 3
[13] Clemente Alessandrino, Paed. III, 1 (tr. it. Il Pedagogo, a cura di A. Boatti, SEI, Torino 1953, 384-388).
[14] Origene, Contra Celsum VI, 77.
[15] Origene, Sermo in Mt, 35.
[16] Atti di Giovanni, 88-89, in M. Erbetta, Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, II, Marietti, Casale Monferrato 1969, 57.
[17] Adv. Haer. III, 19, 2.
[18] Adv. Jud. 14; De Carne Chr. 9, 6; Adv. Marcion. III, 17.
[19] In Luc. 7, 12
[20] Enarr. in Psalmos, CXXVII, 8.
[21] Enarr. in Psalmos, XLIII, 16; XLIV, 14; CIII, I, 5; Sermo 138, 6
[22] Per un’analisi ampia della problematica in Agostino cfr. J. Tscholl, Dio e il bello in Sant'Agostino, Ares, Milano 1996.
[23] In Io. Ep. tr. 9, 9 (tr. it. in Opera di Sant’Agostino, XXIV, Città Nuova, Roma 1968, 1827-1829).
[24] Ibidem.
[25] De civ. Dei 17, c. 16, 1.
[26] PG 75, 1329
[27] Ibidem.
[28] PG 69, 465.
[29] Per un approfondimento si veda G. Gharib, Le icone di Cristo. Storia e culto, cit., 60 ss.
[30] Anonimo Piacentino, in P. Geyer (ed.), Itinera hierosolymitana saeculi IV-VIII, F. Tempsky, Vindobonae 1898, 175
[31] Riportato in G. Gharib, Le icone di Cristo. Storia e culto, cit., 64.
[32] Massimo il Confessore, Vita di Maria, in Testi mariani del I millennio, vol. II, Città Nuova, Roma 1989, 231-232.
[33] Riportato in G. Gharib, Le icone di Cristo. Storia e culto, cit., 68.
[34] Ivi, 70.
[35] Tommaso d’Aquino, In Psalmos Davidis. Super Ps. 44, 2.
[36] Tommaso d’Aquino, STh., I, q. 39, a. 8
[37] Ireneo, Adv. Haer. I, 26, 6.
[38] Storia Augusta, vita di Alessandro Severo, 29, 2, in P. Soresini (ed.) Scrittori della Storia Augusta, Torino 1983, II, 682; si veda anche Elio Lampidio, La vita di Alessandro Severo, 29, 2.
[39] PG 20, 1545 (tr. it. in C. Schönborn, L’Icona di Cristo. Fondamenti teologici, cit., 59).
[40] Eusebio, Hist. Eccl., VII, 18, 4.
[41] Così Y. Christe, “Cristo”, cit., 540.
[42] Anonimo Piacentino, cit., 44, 1-3.
[43] Cfr. E. von Dobschutz, Christusbilder, Untersuchungen zur christlichen Legende, cit.; G. Gharib, Le icone di Cristo. Storia e culto, cit., 42-44.
[44] Eusebio, Hist. Eccl. I, 13. Cfr. G. Gharib, Le icone di Cristo. Storia e culto, cit., 44.
[45] Evagrio Scolastico, Hist. Eccl.: PG 86, 2745-2748.
[46] Citato in G. Gharib, Le icone di Cristo. Storia e culto, cit., 55-56.
[47] Cfr. H. Pfeiffer, La veronica romana ed i suoi riflessi nell’arte, in Il volto dei volti. Cristo, I, Velar, Gorle-Bergamo 1997, 189-195; T.M. Di Blasio, Veronica. Il mistero del Volto. Itinerari iconografici, memoria e rappresentazione, Città Nuova, Roma 2000.
[48] H. Pfeiffer, Ragioni storiche, teologiche e politiche per la tradizione del volto di Gesù nei secoli, cit.; Id. L’immagine di Cristo nell’arte, cit.; Id. La storia dell’immagine di Cristo nell’arte, cit.; G. Morello – G. Wolf (edd.), Il volto di Cristo, Electa, Milano 2000.
[49] C. Schönborn, L’Icona di Cristo. Fondamenti teologici, cit.; L. Russo et al., Nicea e la civiltà dell’immagine, Centro Internazionale Studi di Estetica, Palermo 1998. Si veda anche la Lettera Apostolica Duodecimum Saeculum, di Giovanni Paolo II (4 dicembre 1987).
[50] H. Pfeiffer, L’immagine di Cristo nell’arte, cit., 25.
[51] Ibidem.
[52] Y. Christe, L’image du Christ jeune, in “La Vie spirituelle”, 704, 1993, 189-207 ; Ead., “Cristo”, cit., 543.
[53] H. Pfeiffer, L’immagine di Cristo nell’arte, cit., 46.
[54] H. Pfeiffer, L’immagine di Cristo nell’arte, cit., 55.
[55] Y. Christe, “Cristo”, cit., 542.
[56] H.A. Schmid, Hans Holbein d.J., I, Basel 1945-1948, 158.
[57] Per approfondire l’affermazione si vedano, ad esempio, J. Ratzinger, Presentazione al volume J. Tscholl, Dio e il bello in Sant'Agostino, Ares, Milano 1996; Id., Il bello è il buono, Intervento al Meeting di Rimini 2002, in “Tracce –Litterae communionis – Speciale Meeting 2002”, 34-36; B. Forte, La porta della Bellezza. Per un'estetica teologica, Morcelliana, Brescia 1999; C.M. Martini, Quale bellezza salverà il mondo? Lettera pastorale 1999-2000, Centro Ambrosiano, Milano 1999; Id., La bellezza che salva. Discorsi sull’arte, Ancora, Milano 2002; R. Viladesau, La bellezza e la croce, in “Il regno-attualità”, 12, 2004, 428-435.