«LE COSE DI LASSÙ E QUELLE DELLA TERRA»
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria. (Colossesi 3, 1-4)
Quando al bambino si vuole indicare dove Dio sia, la mamma gli indica spontaneamente il cielo. È quello che tutte le civiltà hanno fatto, considerando gli infiniti spazi siderali come il palazzo divino o ricorrendo ai monti la cui vetta sembra perforare il cielo, mentre la valle e la pianura sono la residenza umana e di tutte le altre creature. Ora, noi sappiamo che di per sé questo è solo un simbolo: essendo Dio infinito, egli è in ogni luogo – come diceva l’antico Catechismo – e al tempo stesso supera ogni luogo. Ebbene, nel breve brano che abbiamo ritagliato dalla Lettera ai cristiani di Colossi, una città dell’Asia Minore (ora ridotta a un cumulo di rovine archeologiche), san Paolo propone lo stesso contrasto tra cielo e terra.
Le sue, però, sono espressioni più generiche. Infatti egli parla di un “lassù”, ove si configura la scena solenne e regale del Padre e del Figlio assisi in trono: è questo l’orizzonte raggiunto dal Cristo risorto; è questo il segno della gloria, della pienezza di vita, della perfezione di tutto l’essere. Noi umani siamo, invece, sulla “terra”, ove c’è ancora il respiro affannoso del male, della fatica, dell’incertezza, del limite. È facile intuire che l’Apostolo non propone tanto un contrasto spaziale, quanto piuttosto un’opposizione esistenziale e morale.
Ai credenti non è chiesto di decollare dalla terra per ascendere verso un misterioso orizzonte superiore per vivere un’esperienza mistico-estatica. L’appello è, invece, rivolto a cogliere i valori permanenti e “alti” dello spirito, lasciando cadere quelli “bassi” del peccato e del vizio. La Pasqua acquista, così, un valore esemplare di indole morale e vitale. E ancora una volta Paolo applica la morte e risurrezione di Cristo alla vicenda del fedele (si veda, ad esempio, Romani 6, 3-11). Col battesimo, scendendo nel sepolcro d’acqua del fonte, siamo morti alle «cose della terra», cioè alla colpa, e siamo rinati, risorti come creature nuove che anelano alle «cose di lassù», cioè a una vita in Cristo.
È significativo notare che, nella linea costante del messaggio paolino, la vita cristiana è una vita “cristologica”, ossia modellata su di lui, sulla partecipazione alla sua stessa vicenda, sulla comunione piena alla sua morte e sulla condivisione della sua gloria. Il pensiero corre a due celebri passi paolini: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me… Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Galati 2,20; Filippesi 1,21).
A margine proponiamo una piccola nota filologica che vorremmo destinare a tutti, anche a chi ignora il greco. San Paolo scrive che noi «siamo morti», nel battesimo, al peccato e usa la forma verbale greca dell’“aoristo” (apéthanen) che indica un evento accaduto una volta per tutte. Ma il risultato della nostra «vita nascosta in Cristo» è espressa dall’Apostolo con un’altra forma verbale, il “perfetto” (kékryptai) che designa un’azione permanente nei suoi effetti: la vita nuova in Cristo è infatti un dono che dura per sempre.