DIO, CRISTO, L’UOMO

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Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo…

Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo. (Efesini 2, 4-5. 8-10)

            Intimamente connessa alla Lettera ai Colossesi, caratterizzata da una serie di innovazioni di stile e di temi rispetto ai precedenti scritti di san Paolo, indirizzata ai cristiani di Efeso, splendida città costiera dell’Asia Minore, ma da alcuni studiosi considerata come una sorta di lettera circolare destinata a più Chiese di quella regione, l’Epistola agli Efesini è un magnifico testo che meriterebbe un attento approfondimento. Del brano che la liturgia di questa quarta domenica di Quaresima ci propone (2, 4-10) abbiamo scelto di meditare l’inizio e la conclusione.

            In scena entra subito, solenne e luminosa, la figura di Dio Padre. La sua fisionomia è contrassegnata da un tratto fondamentale, quello dell’amore. Infatti la sua definizione è, per eccellenza, quella di «Dio ricco di misericordia» (divenuta – nella versione latina – il titolo della seconda enciclica di Giovanni Paolo II, Dives in misericordia). Per due volte si ripete il tema dell’agápe-amore: «il grande amore col quale ci ha amato». La nostra salvezza è frutto di un suo “dono”, così come “opera sua” è la nostra stessa esistenza ed è ancora lui a prepararci la strada delle opere buone «perché in esse camminassimo».

            La storia della redenzione è vista come un atto d’amore divino. Ma è in essa che brilla la seconda figura, quella di Cristo. Egli è alla radice della nostra creazione («siamo stati creati in Gesù Cristo»), ma lo è soprattutto per la nostra redenzione («ci ha fatto rivivere con Cristo»). L’opera di Gesù è, quindi, intrecciata con la terza figura presente in questo brano: è l’uomo con la sua miseria e peccaminosità. L’immagine con cui egli è raffigurato è quella, frequente nel Nuovo Testamento (ad esempio, Luca 15, 24), della morte che deriva dalle sue “cadute”, come si dice nell’originale greco, cioè dalle sue colpe.

            Ma la vicenda umana non ha come estuario ultimo il baratro della condanna, bensì la rinascita. Come nella Lettera ai Romani (6, 3-11), l’Apostolo allude – attraverso l’immagine della morte – al battesimo cristiano, che ricalca l’evento pasquale di Cristo: nel sepolcro d’acqua scende l’uomo “vecchio” peccatore per morirvi, e ne esce la nuova creatura gloriosa, divenuta figlia adottiva di Dio. Dio, Cristo, l’uomo si trovano in questo brano abbracciati tra loro in un vincolo di amore e di salvezza.

            Una nota in appendice alla nostra meditazione. Anche se la Lettera agli Efesini rivela, come si diceva, tonalità e temi nuovi, il nostro passo fa brillare una delle tesi capitali del pensiero di Paolo, quella della giustificazione per grazia divina e per fede umana e non per le nostre opere che sono solo una logica conseguenza della trasformazione in noi operata da Dio. Riascoltiamo le parole dell’Apostolo, mentre invitiamo il nostro lettore a cercare il perfetto parallelo in Romani 3, 27-28: «Per grazia siete salvati mediante la fede, e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio, né viene dalle opere».