L’ABITAZIONE E L’ESILIO
Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli.
Dunque, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione – siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi.
(2 Corinzi 5, 1.6-9)
È da una Lettera paolina molto complessa – segnata anche da salti di emozioni e di temi (tanto da aver fatto ipotizzare ad alcuni studiosi la presenza di più scritti dell’Apostolo unificati redazionalmente) – che noi abbiano estratto un frammento adatto alla meditazione di questi giorni pasquali. San Paolo sta delineando davanti agli occhi dei cristiani di Corinto le fatiche e le gioie del suo apostolato e giunge al punto di confessare che in lui è forte l’attesa di concludere l’itinerario della vita terrena per approdare all’incontro, pieno e privo di schermi e distanze, col Signore.
Il fiume dell’esistenza, infatti, non ha come estuario il baratro del nulla, ma un orizzonte di luce, nella casa del Signore. Tutto il brano è retto da un binomio che scandisce la storia dell’umanità: l’abitare e l’essere in esilio, i due statuti fondamentali propri del sedentario e del nomade. È curioso il gioco di parole che l’Apostolo costruisce attraverso il greco e che vorremmo mostrare ora anche a chi non conosce questa lingua. I due verbi che indicano “l’essere domiciliati a…”, e quindi avere un’abitazione fissa e stabile, e “l’essere esiliati da…”, cioè essere esuli e nomadi, hanno una base comune, il verbo demoun, che rimanda a un luogo di residenza, un territorio abitato, in greco il démos, ove risiede una popolazione (donde, ad esempio, la nostra parola “democrazia”).
Ora, se a quel verbo di base aggiungiamo due preposizioni come prefissi, otteniamo significati antitetici: en, “in”, designa l’abitare nel démos e si ha così il participio endemountes, “abitanti”; ma se premetto ek, “da”, ottengo un ekdemountes, “esuli”, cioè coloro che escono da un luogo per vagare verso una meta («… sia abitando nel corpo sia andando in esilio…», come scrive Paolo in 5, 8). A questo punto, possiamo tirare le fila del discorso proposto dal nostro brano. Noi ora siamo come pellegrini e nomadi, il nostro corpo è come una “tenda” d’argilla (un’immagine usata già da Giobbe 4, 19). Siamo esuli che errano verso una patria lontana, della quale hanno una conoscenza «nella fede e non nella visione».
Quella patria è, infatti, distante e trascendente, comprende un’abitazione non fatta di pietre o mattoni, bensì immersa nell’infinito e nell’eterno perché là risiede Dio, ed è verso di essa che tende tutta la nostra attesa e la nostra speranza. Camminiamo, quindi, nella storia e nel corpo terreno, ma proiettiamo lo sguardo verso quella meta ultima. L’esistenza cristiana è un rimpatrio verso il Signore, e il fedele è un pellegrino che procede – come diceva il mistico russo dell’Ottocento Giovanni di Kronstadt – col bastone da viaggio e l’abito da viandante: quando giungerà alla fine della vita, gli si spalancherà la porta ed egli finalmente sarà a casa sua, «perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Ebrei 13, 14).