Le fiamme si levano potenti, avvolgono ma non bruciano l’uomo che si erge nel cuore di un roveto ardente. Semplicemente lo cancellano, facendolo quasi esalare, mentre l’incendio si riduce a un tremito di fiammelle. Parte dal “video” The crossing (1996) di uno dei maggiori artisti contemporanei, Bill Viola, il gesuita Antonio Spadaro nel suo nuovo, intenso e avvincente itinerario nella letteratura, un percorso tutto all’insegna del fuoco, uno dei simboli teologici archetipici, a partire appunto dal roveto del Sinai che, davanti a Mosè, arde e non si consuma. Si va dall’«anima accesa e poi lasciata stanca» di Pavese al «bambino bruciato attirato dal fuoco» di Dagerman, dal «lenzuolo di fiamma» attraversato da Oscar Wilde fino al «vento di fuoco» della Merini, dalla brace di Bassani al fuoco interiore di Hopkins e al «fuoco che oltre la fiamma dura ancora» di Mario Luzi e così via, perlustrando pagine di vari autori, prima di procedere oltre, verso altre figure simboliche come il viaggio, la frontiera, la lotta, il germoglio, le cose, il Logos.

            Abbiamo voluto evocare l’affascinante saggio L’altro fuoco di Spadaro (Jaca Book, Milano, pagg. 300) per introdurre una mini-bibliografia di testi letterari recenti che si nutrono delle pagine brucianti delle S. Scritture: Bernanos ammoniva che esse sono come ferro incandescente, non si può maneggiarle senza scottarsi. Un collega di p. Spadaro alla Civiltà Cattolica, il gesuita Ferdinando Castelli – che ha alle spalle un’intera vita (e una relativa biblioteca) di analisi, in controluce “biblica”, delle opere di tanti autori italiani stranieri a partire dal Settecento/Ottocento – nella sua ultima opera mette in scena undici scrittori, da von Kleist fino ai nostri Alvaro e Santucci, all’insegna del motto di Valéry Se ci fosse un Dio (Ancora, Milano, pagg. 222). Forse merita di essere citata integralmente la frase del poeta francese perché indica quale sia l’attesa che si intravede in filigrana alle pagine dei personaggi evocati: «Se ci fosse un Dio, visiterebbe, credo, la mia solitudine, mi parlerebbe familiarmente nel mezzo della notte». Il Dio atteso è colui che è in grado di spiegare il senso della vita e che, ad esempio, potrebbe persino fermare la mano suicida di von Kleist.

Nietzsche nei materiali preparatori per Aurora ci ha lasciato una nota spesso citata: «Tra ciò che noi proviamo alla lettura dei Salmi o alla lettura di Pindaro e Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera». Lo doveva confessare proprio lui che, certo, aveva avuto una formazione luterana e quindi nell’orecchio custodiva ancora l’eco della Parola sacra, ma che si batteva per cancellare questa eredità incombente. Dimostrare con Northrop Frye (e prima con Blake) che la Bibbia è per eccellenza “il grande codice” della nostra cultura è un’impresa facile e obbligatoria (si pensi solo alla storia dell’arte occidentale). Ora, tra le tante analisi che hanno documentato questo nesso inscindibile – sia pure in un ambito specifico – possiamo collocare due grossi tomi dal titolo lapidario: La Bibbia nella letteratura italiana (Morcelliana, Brescia). I curatori Pietro Gibellini e Nicola Di Nino, all’interno di un progetto universitario di ricerca, hanno convocato accanto a loro 17 studiosi per illustrare questa presenza «dall’Illuminismo al Decadentismo» (pagg. 420) e altri 24 per l’arco dell’«età contemporanea» (pagg. 583).

Non possiamo né vogliamo elencare la piccola folla di personaggi letterari che qui vengono posti sulla ribalta, risalendo a Parini per approdare fino ad autori recenti, allegando anche alcuni ritratti tematici come «la Madonna nella poesia del Novecento», o alcune «Variazioni sulla Maddalena» o la figura di «Giuda nella narrativa e nel teatro del Novecento». Vorremmo solo far nostro il monito emblematico del curatore Gibellini docente a Ca’ Foscari di Venezia, un monito che può essere allargato a tutti gli autori presi in considerazione: «L’ignoranza dell’intertesto biblico condiziona la piena intelligenza critica dell’opera non solo di autori quali Dante o Manzoni, che al Libro sacro guardano come a viva fonte spirituale, ma anche di autori che avevano orientato verso altri orizzonti il loro pensiero: sarebbe lo stesso, il Principe di Machiavelli, amputato dall’exemplum di Mosè? E i Canti di Leopardi, privati degli echi del Qohelet?».

Una rilevazione, questa, che parte da un’altra considerazione: la Bibbia in sé è già un’opera letteraria. E’, allora, necessaria per una sua completa esegesi un’analisi come quella condotta da Leonardo Amoroso dell’università di Pisa nel suo delizioso libretto Per un’estetica della Bibbia (ETS, Pisa, pagg. 99). Di questa dimensione del Testo sacro, che è compaginata col suo stesso messaggio, si disinteressano di solito esegeti e teologi (le eccezioni sono poche e lodevoli), preoccupati di usare la S. Scrittura solo come cava da cui estrarre asserti formali spogliandoli della zavorra dei simboli, del linguaggio poetico e mitico, della narrazione. Ma anche molti studiosi di estetica affrontano serenamente analisi critiche di opere letterarie o artistiche, privi di qualsiasi attrezzatura biblica, cadendo spesso in equivoci o abbagli clamorosi e riducendo a scheletri i soggetti che esaminano. Amoroso, procedendo a livello esemplificativo ma in forma molto originale e in una perfetta sintonia con il testo sacro (suggestivi i due capitoli sui Salmi e su Qohelet), svela la sorprendente potenza di una Scrittura che, pur avendo al suo interno il severo precetto aniconico del Decalogo («Non ti farai immagine alcuna!»), riesce a fiorire in uno straordinario repertorio figurativo verbale, legato appunto alla Parola.

L’orizzonte è ulteriormente allargato da un altro docente, il siciliano Francesco Diego Tosto, con un suo vasto studio su La letteratura e il sacro (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, pagg. 419). Dall’ampio spettro di questioni che qui vengono messe sul tappeto, così da comporre un vero e proprio arcobaleno tematico (non manca un capitoletto esplicitamente riservato ai citati Castelli e Spadaro), è possibile ricostruire la complessità del rapporto tra fede e intuizione estetica, una sorta di “sororità” che può essere declinata e attestata a livelli molteplici, da quello metodologico (ad esempio si può parlare di “letteratura religiosa”, “cristiana”, o “cattolica”?) all’orizzonte più specificatamente tematico (Cristo, il sacerdote, Maria, angeli, santi e diavoli nelle varie rappresentazioni letterarie).

Per concludere, lanciamo uno sguardo oltre le frontiere solo per segnalare un vivace volume della serie “Bible et…”, proveniente dal Belgio: Bible et art, a cura di Françoise Mies con vari specialisti che sono interpellati sulla scultura e sulle vetrate medievali, splendide epifanie di una Biblia pauperum, sulla musica di Bach, che è in costante ascolto della Parola divina, e su Chagall e sulla sua raccolta “Message biblique” di Nizza. L’opera – come l’intera collana, che ha già in catalogo Bible et littérature – è edita dalle Presses Universitaries de Namur e dalle Editions Lessius di Bruxelles (pagg. 171).