“Fede e scienza sono complementarie e non opposte e incompatibili”. L’ha detto Arno Allan Penzias, Nobel 1978 per la fisica, dialogando col nostro Riccardo Chiaberge. Questa frase la adotterei idealmente come motto per il Convegno internazionale sull’evoluzione biologica che si apre martedì prossimo all’Università Gregoriana e che confesso di aver intensamente sostenuto nella mia funzione di Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Si deve, infatti, lasciare alle spalle l’orgogliosa autosufficienza dello scienziato che relegava la teologia nel deposito dei relitti di un paleolitico intellettuale, superato da chi correva gloriosamente sul luminoso e progressivo viale della scienza moderna. Ma si deve anche vincere la tentazione del teologo che si illudeva di perimetrare i campi della ricerca scientifica o di finalizzarne i risultati apologeticamente a sostegno delle sue tesi.

            Come scriveva Schelling, occorre che scienziato e teologo «custodiscano castamente la loro frontiera», rimanendo aderenti ai loro specifici canoni di ricerca, pronti però anche a rispettare e a tenere in considerazione i metodi e i risultati degli ultimi approcci alla realtà umana in esame. Un celebre scienziato come Max Planck (1858-1947), nel suo saggio sulla Conoscenza del mondo fisico, scriveva che «scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell’altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente».

Tesi ribadita anche da un Papa come Giovanni Paolo II quando nel discorso conclusivo della “Commissione del Caso Galileo” affermava: «La distinzione tra i due campi del sapere [scienza e fede] non dev’essere intesa come un’opposizione. I sue settori non sono estranei l’uno all’altro, ma hanno punti di incontro. Le metodologie proprie di ciascuno permettono di mettere in evidenza aspetti diversi della realtà».

            Uno dei più celebrati studiosi di antropologia culturale, Claude Lévi-Strauss, nella sua opera Il crudo e il cotto, ricordava che «lo scienziato non è l’uomo che fornisce vere risposte, è invece colui che pone le vere domande». Ebbene, riguardo al tema specifico dell’evoluzione umana, una delle questioni capitali che la scienza presenta, ma al cui svelamento contribuiscono in modo determinante sia la filosofia sia la teologia, è quella, delicata e fluida, del segnale o degli indizi che mostrano l’emergere dell’ominizzazione lungo la grande e complessa traiettoria evolutiva.

            In passato ci si appoggiava un po’ “quantitativamente” sullo sviluppo della capacità cranica e si parlava appunto di un “Rubicone cerebrale”, cioè di una svolta legata alla crescita della massa del cervello. Poi, però, si è preferito puntare più sui “marcatori” culturali, come il primo apparire del linguaggio e dell’attività simbolica, con l’affiorare di una primordiale sensibilità estetica. Si tratterebbe, quindi, del superamento della mera fisicità con le sue pulsioni istintuali e meccaniche per assurgere a espressioni più libere e “gratuite”. Ebbene, è proprio qui che la filosofia e la teologia possono dare un ulteriore contributo di comprensione.

            Innanzitutto lo può fare la filosofia che ci aiuta a individuare il trapasso dalla pura e semplice biologia, per cui l’organismo funziona secondo regole obbligatorie, alla elaborazione cosciente che giustifica, controlla e persino muta quei fenomeni primari. L’uomo riesce, allora, a rendersi ragione della sua realtà, a spiegarla e a dominarla, a scoprirne le regole che la reggono e a giustificarle. Ma a questo punto avviene qualcosa di più alto che sconfina nell’etica. Per descriverlo vorremmo ricorrere a quel grande pensatore, scienziato e credente che fu Blaise Pascal. Egli nei suoi Pensieri (n. 829 ed. Chevalier) distingueva un triplice livello progressivo: l’ordine della carne, l’ordine dello spirito e quello della carità. Quest’ultimo livello con la sua gratuità non solo va oltre il meccanismo della carne, ossia della corporeità, già superato dall’ordine dello spirito, ma, come scriveva il filosofo, trascende anche «tutti gli spiriti insieme e tutte le loro produzioni», aprendo l’uomo all’infinito e all’eterno.

            Lo stesso pensatore, in una celebre battuta, ricordava che «l’uomo supera infinitamente l’uomo» e questo trascendimento lo si scopre, ad esempio, nella gratuità creativa dell’amore, che va oltre ogni rigida connessione biologica e anche contro la stessa logica dello spirito che riflette e argomenta. Si pensi alla grandiosa libertà etica esaltata dal cristianesimo col perdonare le offese, proteggere gli ultimi, aiutare anche il nemico o l’estraneo, «dare la stessa vita per la persona amata» (Giovanni 15,13). Questo atteggiamento, che fiorisce proprio dall’alta moralità dell’amore e da una scelta libera, smentisce nettamente quell’applicazione rigida e un po’ caricaturale della teoria evolutiva nota come “darwinismo sociale”: l’esempio più emblematico di tale concezione è nelle teorie di Herbert Spencer o di William G. Sumner che giustificarono le disuguaglianze sociali e le ingiustizie come esiti necessari della selezione naturale e stabilirono un parallelo meccanico tra evoluzione biologica ed evoluzione sociale.

            La gloriosa e drammatica grandezza etica dell’uomo, intessuto di miseria e di splendore, capace di “bestialità” e di eroismo, è il principale segnale dell’“umanità”, il Rubicone che lo separa dal primate. Non è possibile ricondurre questa complessità e originalità sconcertante nel bene e nel male, tipica della creatura umana, questo “ordine della carità”, affermata o negata, a una mera risultanza biologica, fermo restando che tutto questo non esclude i citati dati scientifici della paleontologia, della sistematica e della biologia molecolare, che confermano l’evoluzione progressiva delle varie forme strutturali del vivente (“l’ordine del corpo”, sempre per usare il linguaggio pascaliano).

            Come è evidente, ormai siamo sul terreno teologico e qui iniziano a germogliare altri interrogativi che ci conducono alla comprensione “simbolica”, cioè unitaria e piena, della persona umana (si pensi solo al tema della libertà e del peccato). Noi ci fermiamo qui ribadendo che mai come oggi scienza e teologia, sapere e credere devono incrociare i loro diversi percorsi con serietà e serenità, senza facili concordismi o istintuali rigetti. Per noi credenti valga, allora, sempre l’appello che ci ha lasciato in una sua lettera s. Agostino: Intellectum valde ama! L’amore appassionato per l’intelligenza, il sapere, il comprendere è fondamentale per la stessa fede che altrimenti si estinguerebbe in sentimentalismo, nella consapevolezza, però, che la verità è un Oltre che ci precede e ci supera. E agli scienziati può essere ricordato l’invito che Benedetto XVI proponeva per travalicare «la limitazione autoimposta alla ragione solo a ciò che è verificabile nell’esperimento», dischiudendosi all’orizzonte più ampio della verità. In questa luce – continuava il Papa – «la teologia vera e propria, come interrogativo sulla ragione della fede e del senso ultimo della realtà, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze».