Di professione faceva l’attore e si era convertito al cristianesimo. Al suo vescovo aveva chiesto di continuare a esercitare la sua arte per poter campare. E il vescovo aveva voluto sentire il parere di un collega più prestigioso, Cipriano di Cartagine. Il responso era stato inesorabile: «Io penso che non sia compatibile né con la maestà divina né con la disciplina evangelica che l’onore e il pudore della Chiesa siano contaminati da un contagio tanto impuro e infame». Siamo nel III secolo, ma questa condanna inappellabile e assoluta piomberà su attori, mimi e uomini di spettacolo per tutta l’era patristica e dilagherà anche nei secoli successivi, relegando i teatranti ai margini della comunità ecclesiale, anche dopo la loro morte attraverso il segno delle sepolture “extraterritoriali”. E anche quando a popolare i teatri e i circhi saranno folle di spettatori, il buon cristiano – come suggeriva s. Girolamo in un delizioso raccontino – non deve lasciarsi tentare: anche se nel circo ci sono duecentomila persone, non impressionarti (né illuderti di portarle a salvezza), perché «devi sapere che sono molti a cadere» rispetto ai pochi che si salvano, e così continua ad evitare di metter piede in quei luoghi di peccato.
Ora, l’opinione prevalente tra gli studiosi è che tale condanna implacabile sia stata motivata dalla violenza e dall’immoralità (“osceno” è un vocabolo illuminante nella sua etimologia…) di quegli spettacoli o dal loro contenuto idolatrico. La tesi è, certo, fondata anche nella documentazione letteraria dei Padri della Chiesa. Leonardo Lugaresi, importante studioso dell’orizzonte culturale del cristianesimo antico, propone invece un’ulteriore e, a suo avviso, ben più sofisticata e decisiva motivazione. Lo fa attraverso una monumentale ricerca, già anticipata in articoli precedenti, e ora approdata a un tomo imponente che insegue la questione sia diacronicamente sia tematicamente, con qualche prolissità, ma con un’esaustiva perlustrazione del problema. Il suo punto di partenza è in un’argomentazione avanzata (accanto alle solite dell’immoralità e dell’idolatria) da Tertulliano che al soggetto aveva dedicato un suo trattatello specifico, il De spectaculis.
Il celebre scrittore cristiano africano sosteneva che gli spettacoli contrastano con la ratio veritatis della creazione, perché presentano una realtà fittizia. Detto in altri termini, egli introduceva come argomento d’accusa non tanto una riserva etica, bensì una contrapposizione metafisica tra vanitas e veritas. È curioso notare che un personaggio della categoria, come Jean-Louis Barrault, attore, mimo e regista, nelle sue Nuove riflessioni sul teatro osservava: «Accontentiamoci di dire che il teatro, come la vita, è un sogno, senza preoccuparci troppo della menzogna». Ebbene, il tema del teatro come menzogna, se per noi al massimo si riduce a un’osservazione scontata, per l’antichità cristiana assumeva risonanze ben più radicali: alla vanità futile e inconsistente in cui lo spettacolo ti immergeva si opponeva la serietà drammatica dell’esistenza ove era in causa l’impegno personale. Come scrive Lugaresi, «il livello a cui profondamente affonda le sue radici il discorso cristiano sugli spettacoli è quello ontologico, non appena quello etico e religioso cultuale».
Naturalmente questa critica trascina con sé molteplici corollari e si alimenta di altre inferenze: interessanti sono le rilevazioni sulla struttura stessa della rappresentazione, sulla responsabilità dello “sguardo” dello spettatore nell’incontro con l’offerta dell’attore (c’è, quindi, non solo un ex parte agentis, ma anche un ex parte spectantis), sul teatro interiore che si accompagna al teatro cosmico e così via. La critica, allora, non riguardava solo una tradizionale esortazione a premunirsi contro le tentazioni della carne e dell’apostasia spirituale, bensì riportava il fruitore alla stessa identità cristiana, alla natura “reale” e non fittizia dell’incarnazione, alla qualità antispettacolare della vicenda storica “drammatica” (nel senso originario di “atto”) in cui sono protagonisti Dio e l’umanità.
In questa luce si comprende l’intransigenza dei Padri della Chiesa nei confronti di questa forma culturale, intransigenza che invece non sussisteva riguardo alla letteratura pagana, pur con le riserve del caso. Non si dimentichi, infatti, che diversi scrittori cristiani dei primi secoli non esitavano a esaltare la paideia classica: Origene apriva alla filosofia greca, Basilio scriveva Ai giovani sul modo di trar profitto dalla letteratura pagana, Gregorio Nazianzeno ricorreva a tutte le risorse della poetica tradizionale, mentre il pensiero di Agostino reca impresse le stimmate del platonismo e del plotinismo, e così via. Per il teatro, invece, si levò un corale fuoco di sbarramento e questa critica, opportunamente trascritta e attualizzata, forse non è meno obsoleta e stravagante proprio ai nostri giorni, quando la società dello spettacolo in cui siamo immersi è riuscita ad alienare le menti e a scardinare il reale sostituendogli la fiction. Come scriveva Anthony Burgess, riferendosi all’attuale mezzo egemone dello spettacolo, la televisione, essa è «una metafora della morte della realtà e dell’intimità».
Leonardo Lugaresi, «Il teatro di Dio», Morcelliana, Brescia, pp. 896.