Ha quasi il sapore di una filastrocca nell’originale ebraico, che suona così: hû’ hammaqôm shel maqôm we’en lammaqôm meqomô. È la strofa di un inno medievale cabbalistico che di Dio dice: «Egli è il Luogo di ogni luogo e questo Luogo non ha luogo». Si tratta, perciò, di un modo simbolico per definire l’infinità di Dio: egli è l’orizzonte che ingloba in sé tutto lo spazio, eppure egli non è riducibile entro le frontiere dello spazio. C’è, dunque, un “non luogo” che però assume e assorbe in sé tutti i luoghi.

            È questo il mistero della trascendenza divina a cui sono chiamati a partecipare i fedeli, come ammonisce la Lettera agli Ebrei: «Usciamo verso di lui fuori dall’accampamento, perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (13, 13-14). Questo “non luogo” santo è, allora, la meta del cammino terreno dell’umanità tra i luoghi dello spazio. È illuminante al riguardo una “scoperta” che fa l’autore dell’Apocalisse quando contempla la mappa della nuova Gerusalemme celeste: «In essa non vidi alcun tempio, perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21, 22). Si comprende, in questa luce, la notissima considerazione presente in uno degli scritti più originali dei primi secoli cristiani, la  Lettera a Diogneto: «Per i cristiani ogni terra straniera è patria e ogni patria è terra straniera… Trascorrono la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo» (5, 5.9).

            Questo, però, non esclude che la religione biblica offra anche una forte connotazione “cosmica”, a partire da quell’architettura suprema che è l’universo, sede di un coro possente di cui è guida e liturgo l’uomo (Salmo 148), per giungere poi alla Terra santa e al suo cuore che è il tempio di Sion. Dice un aforisma rabbinico: «Il mondo è come l’occhio: il bianco è il mare, l’iride è la terra, la pupilla è Gerusalemme e l’immagine che vi è riflessa è il tempio». In questa prospettiva si comprende il rilievo di certi spazi sacri. Ne evochiamo solo due sulla base di altrettante pubblicazioni appena apparse.

            Da un lato, ecco il battistero, l’incipit assoluto della vita cristiana. Esso è studiato nella sua spazialità e sacralità da più angolature, teologiche, storiche, architettoniche, pastorali negli atti di un convegno internazionale tenutosi nel monastero di Bose (Biella) lo scorso anno. La ricchezza, anche iconografica, di queste pagine permette di comprendere quanto sia rilevante la simbolica dello spazio per una religione com’è quella cristiana che pure ha privilegiato la storia (e quindi il tempo) come sede teofanica della grazia, della fede e della salvezza e che ha come meta il “non tempio” trascendente sopra evocato. E ci fa anche capire quanto sia necessario allestire una “grammatica” architettonica coerente per lo spazio liturgico.

            D’altro lato, ecco il Santo Sepolcro di Cristo a Gerusalemme, segno della risurrezione, la cui connessione col battesimo è esaltata da san Paolo nella Lettera ai Romani (c. 6). Una medievalista, Renata Salvarani, studia il carattere “prototipico” dell’edificio che lo ospita, del suo culto, del suo essere meta di pellegrinaggi, del suo divenire oggetto di duplicati diffusi nel mondo. È un ritratto molto complesso, fatto di rimandi e di ammiccamenti simbolici, teologici e storici; è, quindi, l’occasione per riscoprire in quello spazio sacro il rispecchiarsi del volto stesso della civiltà medievale.

            Abbiamo preso spunto da queste due pubblicazioni per una libera riflessione su una categoria così radicale com’è quella spaziale e siamo partiti dal sorprendente concetto di “non-luogo”, proprio dell’“u-topia” escatologica. Vorremmo ora ricordare che c’è, però, un’altra esperienza del “non luogo” che è antitetica e quasi satanica. È quella del non aver più uno spazio proprio, vissuto e amato, morsi come si è dalla frenesia di muoversi, di andare sempre oltre, spesso senza meta. Si pensi solo al moto perpetuo del romanzo On the road di Jack Kerouac, il vangelo della “beat generation”: non si conosce più il gusto della “residenza”, che suppone lo stare seduti in modo pacato e placato, o il “domicilio” che rimanda a una domus, cioè a una casa sicura e stabile. Si è, invece, sempre “sulla strada”, senza meta e approdo.

            Le stesse città moderne, così anonime e senza centro, non sono più luoghi ma “non luoghi”, come diceva in modo folgorante la scrittrice americana Gertrud Stein definendo la californiana Oakland: “There’s no there, there”, “Là, non c’è alcun là”. Si ricalcava, così, ma in modo diabolico, l’asserto cabbalistico sul divino. Ma c’è forse un paradosso ulteriore. L’uomo di oggi è spesso legato a un luogo ma non vi è radicato, non lo ama, non se ne appropria e vorrebbe essere altrove, anche se gli è impossibile. È quello che uno studioso francese, Rémi Lack, aveva definito come l’“exode sur place”, l’“esodo sul posto”. Ci si muove, magari ricorrendo alla navigazione virtuale, ma si è sempre inchiodati nello stesso spazio, nella stessa prigione e insoddisfazione. Sì, il “non luogo” può intaccare anche il “luogo”, santificandolo o pervertendolo. Può essere inquietudine escatologica benedetta, ma anche irrequietezza, malcontento e frustrazione.

                                                                               

Autori Vari, «Il Battistero», Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano (Biella), pagg. 251.

Renata Salvarani, «La fortuna del Santo Sepolcro nel Medioevo», Jaca Book, Milano, pagg. 202.