Ascoltare le lingue dell’anima nella città
by Fr Lloyd Baugh, SJ
A) Introduzione: Wenders
Durante l’estate del 1988, ho trascorso 3 mesi a studiare il tedesco a Berlino, appena un anno prima della caduta del muro. All’inizio, la città mi ha affascinato anzi sedotto con la sua grande bellezza e la sua eccezionale energia, per il suo essere crocevia e crogiolo di culture, di lingue, di sistemi socio-economici.
Però, vi confesso che verso la fine dell’estate, mi sono un po’ stancato del “buzz” apparentemente laico della città, e sentivo il bisogno di scoprire qualcosa in più di Berlino, la sua anima, una dimensione spirituale, Etwas geistliche, in mezzo al labirinto dei “rumori.”
E come se fosse provvidenziale, proprio in quel momento, è arrivato a Berlino il nuovo film di Wim Wenders, Der Himmel über Berlin, Il cielo sopra Berlino, The Wings of Desire. Riconosciuto come capolavoro cinematografico—ha vinto la palma per la regia al Festival di Cannes—e di straordinaria valenza spirituale, il film mi ha offerto la risposta che cercavo, mi ha rivelato la meravigiolosa, anzi miracolosa, dimensione spirituale di Berlino, e per estensione, di qualsiasi città.
Storia dell’amore kenotico e redentore dell’angelo, Ariel, per l’acrobata, Marion—una trasparente metafora dell’amore di Dio per l’umanità nonche’ dell’Incarnazione—il film di Wenders mi ha dato l’insight cruciale per poter navigare il labirinto di Berlino con occhi e cuore aperti, e perciò con tanto beneficio.
Da 22 anni, il film di Wenders rimane per me uno splendente faro estetico-spirituale, sia personalmente che nell’insegnamento, un film che offre una proficua navigazione per il complesso mondo del cinema come oggetto di cultura, e come articolazione di fede nella cultura come affermazione dell’incarnazione di Dio nel mondo.
Mi sembra che Il cielo sopra Berlino sia anche un film di particolare rilievo emblematico per il tema del nostro incontro, ed in particolare, per questa breve riflessione che vorrei fare con voi stasera sul cinema come un modo di ascoltare le lingue dell’anima nella città.
La mia presentazione stasera è scandita in cinque punti. Non vuol essere né un indagine teorico né un trattamento comprensivo e definitivo del tema. Piuttosto, e partendo dalla mia esperienza 20enne di lavoro accademico nel ricchissimo campo di teologia e cinema, vi vorrei proporre una riflessione assai concreta su alcuni testi filmici che, come il grande film di Wenders , servono al homini urbis come espressioni preziose ed utili dell’anima, dello spirito, nella città.
B) An unpacking of the words
As the groundwork for a further discussion of specific films, let us briefly consider how the theme of our conference is particularly appropriate for the medium of cinema.
The word “ascoltare,” to listen to, rather than “sentire,” to hear, suggests an active, dynamic involvement of the subject; it suggests the possibility of reply or dialogue between the listener/viewer and the word spoken; it further suggests the possibility of change, of growth in the listener.
Cinema is only one of “le lingue,” the languages, the voices, and like the others, cinema is a medium, a channel of thought and action, between persons, cultures, religions. For me, it is an invitation to communication, to exchange, to dialogue, to establish mutual understanding.
I understand “anima,” soul, spirit, not so much in the dualistic sense of a rigorous division between body and spirit, but rather as the most intimate, most human dimension of our existence. It indicates what is most fully human in the human being, a dynamic synthesis between the material and the spiritual. We are most human when we reach for the divine, when we commit to Mystery; we are most “divine”—I speak metaphorically—when we commit, deeply and irrevocably, to the material universe
In the film medium, it seems to me that the “lingue dell’anima nella citta’” are both the voices of the “anima/e” of the protagonists in a film, as they struggle with events, issues, choices and other people—and behind them, the voice of the “anima” of the director—and also the “anima/e” of the viewers of the film, as they enter in dialogue with its characters.
“Città,” the city, is where a culture or civilization is centered, concentrated, where culture is created, where culture expresses itself, where culture is best discovered and expressed. It is also a crossroads of cultures, a meeting place, a place of tension and stress, of communication and communion.
I will invite you to consider films from various cultural and religious traditions; some of them represent the religious dimension of “anima”/ human experience/ quite explicitly, while others represent it only implicitly.
We, with our traditional belief in God and in Mystery, our explicit faith commitment, may at first have problems with some of these films. I propose that this is not a bad thing, and that the challenge is to allow the director to lead us slowly into that Mystery as It manifests Itself in subtle, perhaps-hidden, “mysterious” ways in the experiences, choices and actions of the protagonists of the film and in their culture.
C) 7 urban films: le lingue dell’anima nella citta
Ora vorrei fare accenno a 7 film prettamente urbani cioè, ambientati in delle città e trattendo delle problematiche tipiche del hominis urbis. 6 sono dei film recenti e 1 è un grande classico, e tutti sono delle belle espressioni dell’anima nella città.
Il film franco-israeliano, Va vis et deviens, di Radu Mihaileanu (2005) è basato sull’evento storico del rimpatrio dei Falasha dell’Etiopia in Israele nel 1980. Muovendosi tra Gerusalemme e Tel Aviv, tra identità ebraica e cristiana, tra fede e non-fede, il film rappresenta il linguaggio dell’anima nella ricerca di fede e di identità del giovane protagonista, e nell’amore della sua famiglia adottiva. E’ una splendida perorazione per la tolleranza e il dialogo, nei quali il ruolo dello Spirito è evidente.
L’iconica città statunitense di Los Angeles è l’ambito del film Crash di Paul Haggis (2004) che nelle storie interconnesse di una decina di “angelinos” analizza la disumanizzante frammentazione della vita nella megalopoli del 21esimo secolo. Però, dietro i difficili urti sociali, razziali, culturali, vissuti in un mondo violento, scuro ed apparentemente post-cristiano, il film rappresenta nei gesti e parole di alcuni dei protagonisti diversi incontri profondamenti umani e radicalmente cristiani, evidenza univoca della attività dello Spirito nella città.
Il film Water di Deepa Mehta (2005) si svolge nella città sacra indiana di Varansi e dentro le strutture intolleranti e crudeli dell’integralisimo religioso-culturale. Rappresenta nell’umanità e carità tra le vedove rinchiuse per la vita in un ashram, e nella coraggiosa lotta di alcune di esse per giustizia e liberazione, la voce dell’anima che geme e grida a favore della vita.
La Ciudad de Mexico è tra le 3 or 4 più popolose città del mondo, e il film messicano La Zona (Rodrigo Plá, 2007) rappresenta drammaticamente l’apparentemente incolmabile golfo tra ricchi e poveri, tra privilegiati e abbandonati, che esiste in questa mega-città ed in tante altre. Suggerisce con forza drammatica quanto la voce dell’anima viene soffocata quando il potere dei ricchi viene minacciato. Però allo stesso tempo, fa vedere nell’incontro tra due ragazzi, uno povero e vittima, l’altro ricco, la possibilità di dialogo, di redenzione e di speranza. La lingua dello spirito resiste il silenziamento definitivo.
Il film sudafricano Tsotsi (Gavin Hood, 2005), ambientato nella megalopoli di Johannesburg nel periodo del dopo-apartheid, ha una tematica simile a quella dei film messicano. Ma in Tsotsi la lingua dell’anima si esprime in gran parte nel lotta interiore tra bene e male nell’anima del protagonista.
Ragazzo andato male e omicida—il suo nome, Tsotsi, significa teppista—egli viene toccato dalla grazia nell’innocenza di un bambino. L’incontro lo mette in crisi morale, lo trasforma, e nella conclusione del film, Tsotsi fa una decisione matura e responsabile a favore del bambino, e così supera il male che lo opprime e trova la sua autentica umanità e libertà, la sua redenzione,
Siamo privilegiati stasera di fare questo nostro incontro all’ombra di Marco Aurelio sul Campidoglio, centro dell’Urbis e focus di attività urbana politica, religiosa e culturale da più di 2500 anni. L’Urbs ha ispirato tanti film, alcuni dei quali rivelano con forza ed eloquenza la lingua e la dinamica dell’anima nella città.
Tra questi film, La dolce vita, capolavoro di Fellini (1960), spicca per me come di particolare rilevanza ed importanza per il nostro tema. A prima vista, il film potrebbe sembrare meramente una glorificazione dell’edonismo, appunto della “dolce vita,” e una critica di valori religiosi tradizionali. Però vi propongo che una lettura più accurata del film rivela che Fellini intende il titolo come ironico, e che nel disperato ed amorale girovagare del suo protagonista, Marcello, rappresenta la grande sete dell’uomo urbano per la verità e il significato moral-spirituale. Fellini sottolinea questa ricerca spirituale con particolare effetto drammatico nella scena conclusiva del film: la ragazza Paola, incarnazione dell’innocenza, una specie di angelo, chiama Marcello con un cenno; egli pausa, riconosce l’offerta della grazia che lei rappresenta, ma con malincuore cammina via. Però lei non distoglie lo sguardo da lui, ma lo segue con un sorriso benevolo: la dinamica della grazia, il movimento dello Spirito, non ha chiuso con Marcello.
D) 3 monastic films:
It would be an egregious error to pretend that only urban films speak the language of the Spirit to urban man.
Monastic life might seem to be in diametric opposition to urban life. It’s about getting away, withdrawing from the activity, distractions and stresses of the city, and in silence and contemplative prayer, undertaking an interior, spiritual quest, a search for, and encounter with, Mystery. Hardly of interest, one might imagine, to urban man.
Yet the critical and popular success of three recent films representing different traditions of monasticism make it clear how urban man, threatened by violence, distracted by technology, morally confused and spiritually fragmented, listens willingly and enthusiastically to the language of the spirit represented in the monastic tradition, and thus, it would seem, finding answers to his questions and meaning for his life.
Spring, Summer, Fall, Winter ... and Spring (Kim Ki-duk, 2003), from South Korea and in the Buddhist tradition, and Ostrov/The Island (Pavel Lounguine, 2006), from Russia and in the Orthodox tradition, not only propose the moral-spiritual validity of monastic life in itself, but within their diegesis, they explicitly represent people of the city coming in pilgrimage to the monasteries, evidently attracted by the voice of the spirit heard there and finding meaning, hope and redemption in it.
The German film, Into Great Silence/Die Grosse Stille (Philip Gröning, 2005) focuses exclusively on the inner life of the monastery of the Grande Chartreuse, and as the title suggests, it dares to do so in a documentary style that reflects the content of the film: nearly three hours in length, with neither music nor dialogue, no artificial lighting, no elaborate sets, no digital special effects, no psychological conflict, no suspense.
Given the typical style of popular films—perhaps I should say “movies”—today, these deliberate decisions of the director, courageous but eccentric, might seem to invite failure for the film. And yet, just the opposite happened. To the suprise of the director and of film critics, audiences in the major cities of the world thronged to see the film, to enter “into great silence,” and they lived the experience it offers with respect and enthusiasm.
These three films speak eloquently to people “of the city,” because, in both content and style, they speak the language of the spirit. Focusing daringly and explicitly on the mystery of human existence, on the Holy Mystery of God, they appeal to homo urbis, who, it is clear, experiences a hunger for Holy Mystery. In and through these films, so clearly in tune with their own deepest yearnings, people of the city, moved by the Spirit, search and in some sense find ... themselves ... and God ...
E) Il Decalogo di Kieslowski
Nella mia esperienza del cinema, in nessun luogo è la dinamica di “Ascoltare le lingue dell’anima nella città” più eloquente, chiara e gratificante quanto nei brevi film del Decalogo di Kieslowski (1988), un documento del tutto unico nella storia del cinema. 10 film di 55 minuti, sembrano fatti apposta per la nostra tematica.
Ambientati in una zona residenziale di Varsavia oggi—ma potrebbe essere qualsiasi grande città—zona fatta di anonimi e grigi grattacieli condominiali che sembrano incoraggiare l’anonimità e l’isolamento degli abitanti, ognuno racconta una storia particolare di vita in città, tutte situazioni marcate dalla solitudine, la non-comunicazione e gli stress, tipici del mondo urbano post-moderno.
Kieslowski include tra i protagonisti: medici, un avvocato, professori, musicisti, uomini d’affari, tassisti, un impiegato della posta ed altri, una larga tranche di vita urbana, con tutti i suoi problemi sociali, morali e spirituali.
In ciascun film, Kieslowski introduce un conflitto, un problema da risolvere oppure una situazione di crisi da gestire, e poi guida i suoi personaggi per un veritabile labirinto moral-psicologico di riflessioni, scelte, decisioni, azioni, mentre fanno fatica a superare limiti, resistere tentazioni, correggere sbagli, perdonare offese, sopportare ingiustizie e sofferenze, e, alla fine, a trovare il coraggio e la generosità per fare la cosa giusta.
Le voci dell’anima in questa città sono voci disperate e voci di speranza, voci di violenza e di pace, voci di fallimento e di successo, voci di infedeltà e di fedeltà, voci crudeli e di tenerezza, voci di rabbia, di dolore e di gioia, voci di peccato, di perdono e di riconciliazione, voci di dubbio e voci eloquenti di fede.
E con grande abilità e sotigliezza, dietro questo Babele, dietro o, meglio, dentro tutte queste voci varie, Kieslowski rivela la voce dell’amore: amore tra genitore e figlio, tra moglie e marito, tra fratelli, tra peccatore e uomo giusto, tra vittima ed aggressore, in fin dei conti, tra l’uomo e Dio, tra l’uomo che grida, e Dio che risponde.
Altamente sensibile alla sua cultura, con l’eccezionale capacità di un grande artista, e fedele alla propria ricerca di amore e di significato nel mondo post-moderno, Kieslowski mantiene implicita la ricerca e la scoperta di Dio dei suoi protagonisti. Però in quattro dei film, e fedele alle proprie radici cultural-religiose cristiane-cattoliche, Kieslowski parla direttamente ed esplicitamente di Dio e insiste con forza drammatica che in quanto i suoi protagonisti riescono a superare egoismi, paure, dubbi, e ad aprirsi verso l’altro con amore, proprio in quell’esperienza di amore, incontrano Dio.
In questi bellissimi ed importantissimi film, Kieslowski non solo ascolta e rivela le lingue, le voice dell’anima in città. Ma forse più importante, egli offre allo spettatore dei film del Decalogo una possente esperienza estetica dentro e tramite la quale, accompagnato dallo Spirito, può valutare le proprie esperienze di cercare, nella città spesso scura ed ambigua, la luce, il significato, e Dio.
F) Film, Theology and Prayer
I have been teaching theology and doing ministry at the Pontifical Gregorian University for more than 20 years. In the final section of my comments this evening, I’d like to share very briefly with you two points regarding this very practical experience.
The first point is simply the fact that film as a language or voice of the human spirit in the city lends itself remarkably well to the academic disciplines of theology. At the Gregorian—and in other Universities around the world—I teach a cycle of 4 courses, 1 per semester over 2 years, that use film texts as the material for the theological reflection done.
The first of these courses goes in the direction of Fundamental Theology and seeks to understand the sense of the word “religious” when applied to film texts: What is a religious film? What makes a film religious? Its content or its form? Is orthodox belief and moral uprightness a pre-requisite in film-makers if they are to make a religious film?
The second course is a Christology course, that considers the explicit and implicit christologies operative in the Jesus films and in the many films that tell the Jesus story metaphorically. The third is a Moral Theology course, based entirely on the Decalogue films of Kieslowski. And the fourth course, in the direction of Interreligious and Intercultural Theology, and considers the experience of God is expressed in world cinema, with 8 films from the Western Christian tradition and 8 from the Orthodox, Jewish and other religious traditions.
Very briefly, and based on the main premise of this paper, namely that a film text is capable of speaking the language of the spirit, in the experience of viewing each of the films in these courses, a dialogue is established: the experience of the viewer meets the experience of the characters in the film and of the director; the experience depicted in the film reaches into the viewer’s soul/spirit and speaks to it, and calls for a response.
At times this human and theological dialogue is easy, when the film sustains or affirms something the viewer already knows and has experienced in positive. At times, the dialogue is difficult, perhaps even painful, when the film offers the viewer new experiences, hard questions, it challenges the viewer to go beyond comfortable, uncritical perhaps complacent ideas about God and the experience of God.
Easy or difficult, my experience is that the dialogue between “spirits” in the theological reflection on film texts, is always a rich and fruitful encounter.
The second point I want to make stems from my work as a member of the University Chapel at the Gregorian, and it involves a shift from the mode of theology to the mode of practical spirituality: it concerns the use of film texts for prayer experiences and in courses of spiritual exercises.
At the Gregorian and in other university and parish settings, I, and others, have directed days of prayer and weekend-, 5 day- and 8 day-retreats, both preached and individually directed, “around” films viewed on those occasions.
Some films about Jesus and about Christian experience, but not all, are suitable for prayer. In fact, my experience is that a film does not have to be of explicit biblical, religious content or theme, nor even of the Christian tradition, to be of use for spiritual exercises; it is sufficient that the film be truthful in its representation of the social, personal and moral complexity of human experience.
Our time is limited this evening, and I and others have written elsewhere about the use of film for prayers, so let offer you only a few essential points about this experience.
The use of visual images for prayer is neither new nor revolutionary, in fact in Christianity, there is a millennia-old tradition that supports the idea.
The parables of Jesus justify the use in prayer of filmic narratives that are not explicitly religious.
The experience of the rich variety and complexity of the concrete, sensual audio-visual imagery of a film is not far distant from the exercise of the composition of time and place indicated in the contemplative prayer tradition of Ignatius of Loyola and other spiritual masters.
Related to this, the multi-sensorial dimensions of the experience of film offer a powerful vicarious experience to viewers, allowing them to participate on various levels in the reality depicted.
Finally, and to go back to the opening of my paper, one of the most successful films I have used in these spiritual exercises is Wenders’ The Wings of Desire. In their evaluations of the retreats, participants comment on experiencing the film as a yearning of the Spirit in the city that connects very fruitfully with their own yearning, in the city, for God: a yearning of the Divine Spirit to incarnate into the human experience, a yearning of the human spirit to reach towards the Divine.
G) IT conclusione
Il Vangelo rappresenta Gesù—Verbum Dei, Parola di Dio—forse soprattutto come comunicatore, la cui vita, morte e risurrezione, comunica, trasmette l’amore salvifico di Dio agli uomini. Egli comunica quest’amore di Dio nella propria persona, nelle sue azioni e nelle sue parole.
Nel suo insegnamento, Gesù riserva un posto importante alle parabole.
In ogni occasione, Gesù conosce bene la cultura e la situazione esistenziale della gente alla quale rivolge la parola; egli ascolta le lingue dell’anima nella città. E nelle sue parabole, queste brevi fiction evangeliche, spesso non esplicitamente religiose, egli invita—meglio, sfida—i suoi interlocutori ad ascoltare le lingue dell’anima in se stessi e nella storia raccontata. Offre la possibilità, la speranza, di un dialogo tra le anime, la sua e quelle degli ascolatori, un dialogo di amore che offre luce, speranza, liberazione e redenzione.
Chiudo, proponendo che un film onesto e ben fatto, di un regista che ascolta attentamente le lingue dell’anima “in città,” può agire come una parabola anche evangelica, e che per lo spettatore guidato dalla Spirito, tale film-parabola può diventare, nell’ambiguità labirintica della città di oggi, un’occasione di grazia, una fonte di luce, speranza, liberazione e redenzione, sia per l’uomo individuale che per la sua cultura, sia per noi che per la nostra cultura.
The Gospel represents Jesus—Dei Verbum, the Word of God—perhaps above all, as a communicator, whose life, death and resurrection, communicates, transmits the saving love of God to men. He communicates this love of God in his person, his actions and his words.
In his teaching, Jesus gives particular importance to parables.
On every occasion, Jesus knows the culture and the existential situation of the people he is addressing, he listens to the language of the soul/spirit in the city. And in his parables, these brief evangelical stories, often not explicitly religious, he calls—perhaps better, challenges—his audience to listen to the language of soul within themselves and in the story told. The parable offers the possibility, the hope of a dialogue between souls, that manifested in the parable and those of the listeners, a dialogue of love that offers light, hope, freedom and redemption.
I close by proposing that an honest and well-made film, by a director who listens carefully to the language of the “spirit in the city,” may act also as a parable of the Gospel, and that for the viewer led by the Spirit, the film-parable can become, in the ambiguity of the labyrinthine city of today, an occasion of grace, a source of light, hope, liberation and redemption, both for individual human beings and for their culture, both for us and for our culture.
A film: Son of Man
In another moment of the Plenary, Fr Baugh introduced the category of the Jesus Film. In doing so he used the following images to illustrate his message.