TRA VERBO DIVINO E CARNE MORTALE

Padiglione della Santa Sede alla 56. Biennale d'arte di Venezia

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g_ravasi_2 Cardinal Ravasi

    Era il 1982 e il critico letterario canadese Northrop Frye pubblicava il saggio The Great Code che Einaudi traduceva in italiano nel 1986: la formula “grande codice” era stata coniata, però, quasi due secoli prima da quell’originale ed eclettico personaggio inglese che era stato il pittore, poeta e incisore William Blake. Egli aveva spesso usato come metatesto per le sue creazioni proprio la Bibbia, il supremo “codice” iconografico e letterario adottato per secoli dagli artisti occidentali. Partecipando per la prima volta alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2013, la S. Sede ha idealmente voluto rinverdire questo legame che si era infranto nel secolo scorso, generando un divorzio infecondo tra la ricerca artistica e quel “lessico” simbolico, narrativo e tematico che erano le S. Scritture ebraico-cristiane (e questa definizione era, invece, dello scrittore francese Paul Claudel).

 

          «In principio era il Lógos/Verbo...»

          Nell’edizione del 2013 si era voluto proporre a tre diversi artisti come spunto libero per le loro creazioni l’incipit assoluto di quel testo sacro, i primi undici capitoli della Genesi che mettono in scena la creazione, la de-creazione (il peccato e il diluvio universale), la ri-creazione con l’entrata in scena di una nuova umanità, di una nuova storia e della salvezza. Ebbene, quell’avvio radicale dell’essere e dell’esistere nella Bibbia era affidato a un evento “sonoro” trascendente, alla Parola divina: «In principio Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (1,1.3). Ora, in questa nuova presenza della Chiesa cattolica alla Biennale, si è pensato di suggerire ad altri tre artisti come germe per la loro creatività libera un altro incipit, parallelo a quello della Genesi.

          Esso scandisce l’inizio ideale del Nuovo Testamento in quel capolavoro unico che è il prologo del Vangelo di Giovanni. «In principio era il Lógos, il Verbo... Il Lógos era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui...» (1,1-3). C’è, dunque, un bere’shît, un “in principio” (in ebraico) del Primo Testamento, e un en archê, un “in principio” (in greco) del Nuovo Testamento: in entrambi i casi si tratta di un inizio trascendente, cosmico e storico nel quale Dio squarcia il silenzio del nulla e dà origine all’essere. È ciò che Michelangelo ha rappresentato in modo mirabile nella volta della Sistina, così come per secoli, prima e dopo di lui, ha fatto una legione di artisti, non solo col pennello ma anche con altre arti. Si pensi solo a quel capolavoro musicale che è Die Schöpfung, “La Creazione” di Haydn con la sua prodigiosa generazione di un celestiale e solare Do maggiore che esce dal caos di una modulazione sonora commista e confusa.

          Così, dopo le pagine iniziali della Genesi, si è voluto ora presentare alla lettura, all’ascolto e all’emozione degli artisti proprio le righe sacre che aprono un Vangelo straordinario com’è quello di Giovanni, «il fiore di tutta la Scrittura, il cui senso profondo e riposto nessuno potrà mai pienamente cogliere», come affermava nel III secolo uno dei primi scrittori cristiani, Origene di Alessandria d’Egitto. Arduo è già tradurre letteralmente quel termineLógos iniziale. Ne sapeva qualcosa il Faust di Goethe quando cercava di renderne le varie iridescenze semantiche col lessico tedesco: certo, è Wort, “parola”, ma è anche Kraft, “potenza” efficace e creatrice; è pure Sinn perché quella Parola dà “significato” alle realtà cosmiche e alle vicende storiche, ed è, infine Tat, “atto”, evento pieno e perfetto. Infatti nella filigrana del Lógos greco scorre allusivamente l’ebraico dabar, vocabolo che designa contemporaneamente nella lingua della Bibbia la “parola” e l’“atto”.

         

          «Il Lógos/Verbo divenne carne...»

          Nello svolgersi di quell’inno di apertura del quarto Vangelo c’è, però, un ulteriore versetto che suona così: «IlLógos/Verbo divenne carne» (1,14). L’assioma è paradossale per la cultura greca che vedeva un’incompatibilità tra trascendenza e immanenza, tra spirito e corpo, appunto tra il Lógos infinito, eterno, puro e perfetto e la sárx, la carnalità fragile, caduca, limitata, mortale. Eppure questo incrocio “scandaloso” è alla base della teologia cristiana, il cui cuore è appunto in quella che viene definita come l’“incarnazione”, la sárkosis nel greco primordiale dei primi autori cristiani. Lo sconcerto di una simile visione, che unisce strettamente divinità e umanità in Gesù Cristo, che vincola assoluto e contingente, eterno e temporale, infinito e spazio, sarà alla base delle prime “eresie” cristiane: la cosiddetta “gnosi” rigetterà una simile contaminazione, esaltando l’esclusiva spiritualità del Lógos divino contro ogni commistione con l’esistenza “carnale” umana.

          Eppure è proprio da questo incontro che nasce l’arte cristiana: contro ogni iconoclasmo, che considerava idolatrica la rappresentazione di Dio, si celebra l’“icona”, l’immagine cristologica in cui il volto umano diventa teofanico, cioè epifania del mistero divino. Questa unione “teandrica”, ossia divino-umana, è suggestivamente cantata da un autore agnostico come Jorge Luis Borges che, in una sua poesia intitolata appunto Giovanni I,14, poneva in bocca a Cristo questa sorprendente autobiografia del Lógos/Verbo incarnato:

Io che sono l’È, il Fu e il Sarà

accondiscendo ancora al linguaggio

che è tempo successivo e simbolo…

Vissi stregato, prigioniero d’un corpo

e di un’umile anima…

Appresi la veglia, il sonno, i sogni,

l’ignoranza, la carne,

i tardi labirinti della mente,

l’amicizia degli uomini

e la misteriosa dedizione dei cani.

Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce.

 

Per usare un’espressione dello scrittore francese Charles Péguy, nel cristianesimo «anche il soprannaturale è carnale» da quando il Figlio di Dio diventa l’uomo Gesù che è pure «frutto di un ventre carnale» (così nella sua operaEva del 1913). Ma c’è un corollario fondamentale all’“incarnazione” del Verbo. Il Lógos, infatti, è di sua natura eterno e infinito e, perciò, innestandosi nel temporale e nel finito lo irradia radicalmente, strutturalmente e permanentemente. È per questo che ogni “carne” umana reca in sé un bagliore di divino, ogni viso umano è un riflesso del volto divino. In questa linea si comprende perché Cristo stesso dichiari la sua presenza anche dietro il profilo più miserabile di un affamato, di un assetato, di uno straniero, di un ignudo, di un malato, di un carcerato, tanto da affermare: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (si veda Matteo 25,31-46).

          Si è, allora, deciso di proporre agli artisti del Padiglione della S. Sede della Biennale 2015 anche un’altra pagina di straordinaria intensità umana e fragranza spirituale, una delle almeno 35 parabole di Gesù offerte dai Vangeli. È, forse, la migliore interpretazione narrativa dell’asserto «il Lógos/Verbo divenne carne». L’“incarnazione” piena è da cercare nella celebre parabola detta del “Buon Samaritano”, conservata dal terzo evangelista, Luca, un autore particolarmente attento al tema della misericordia e della tenerezza di Gesù per ogni carne malata e per ogni persona sofferente tanto da essere definito da Dante nella sua opera Monarchia come lo scriba mansuetudinis Christi. Noi ora presenteremo questo testo ulteriore che abbiamo messo nelle mani degli artisti perché li provocasse liberamente e creativamente. Dallo zenit celeste e luminoso del Lógos divino si precipita qui nella polvere e nella tenebra del nadir della violenza, del dolore e dell’umanità dolente.

 

          UN CORPO FERITO E ABBANDONATO SU UNA STRADA

          La parabola del Buon Samaritano (Luca 10,25-37) è ambientata sulla strada romana – ancor oggi riconoscibile – che in una trentina di chilometri conduce dagli 800 metri di Gerusalemme ai 300 metri sotto il livello del mare ove è situata, in mezzo a un orizzonte desertico e quasi lunare, la splendida oasi di Gerico. Il racconto ha, però, una cornice storica concreta, collegata a un incontro che Gesù fa con un rappresentante del giudaismo ufficiale di allora. Infatti, davanti a lui si leva un nomikós, cioè un “dottore della legge” biblico, un giurista, che interpella Cristo con un quesito: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (10,25).

Gli impegni dell’ebreo osservante per raggiungere quella meta erano stati codificati dalla tradizione rabbinica in 613 precetti estratti dalla Bibbia, 365 negativi (quanti sono i giorni dell’anno) e 248 positivi, tanti quante sono le ossa del corpo umano secondo l’antica fisiologia. Gesù risponde citando due passi biblici, entrambi legati all’“amare” : «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze» (Deuteronomio 6,5) e «Amerai il prossimo come te stesso» (Levitico 19,18). Il dialogo ha, però, una svolta nell’ulteriore replica dello scriba: «Chi è mai il mio prossimo?». Un quesito “oggettivo” che l’ebraismo risolveva sulla base di una serie di cerchi concentrici di rapporti interpersonali piuttosto limitati: i propri familiari, il clan, la tribù, il popolo di Israele, la Diaspora giudaica. Gesù risponde ricorrendo a una parabola che alla fine ha un interrogativo rilanciato allo scriba: «Chi ha agito come prossimo?». Il ribaltamento è evidente: invece di interessarsi “oggettivamente” alla definizione del prossimo, Gesù invita a comportarsi “soggettivamente” da prossimo nei confronti di chi è nella necessità e che subito vede chi gli è veramente prossimo.

          Un viandante sta percorrendo quella strada che discende tra i monti del deserto di Giuda. All’improvviso, egli subisce un assalto di briganti che «lo spogliarono di tutto, lo percossero a sangue e se ne fuggirono lasciandolo mezzo morto» (10,30). Ancora nel 1931 il vescovo anglicano di Gerusalemme era stato ucciso da un gruppo di predoni proprio mentre stava recandosi su questa strada da Gerusalemme a Gerico e non è mancato chi ha ipotizzato che Gesù abbia preso spunto da un fatto contemporaneo di cronaca nera. La scena è, comunque, impressionante: un corpo insanguinato, il silenzio del deserto, l’attesa di un passaggio. Ecco, finalmente, da lontano un sacerdote ebreo proveniente dal tempio di Gerusalemme... Ma subito la delusione: «Passò oltre dall’altra parte» della strada. Ecco, però, un altro passaggio, un levita, cioè un addetto al culto giudaico. Di nuovo la delusione: anch’egli «passò oltre dall’altra parte» (10,31-32).

Ecco, infine, un terzo viandante, un “eretico” samaritano, appartenente a una comunità che nella Bibbia è chiamata «lo stupido popolo che abita in Sichem», anzi, «neppure un popolo» (Siracide 50,25-26). Eppure è solo lui che si accosta e si piega sull’ebreo ferito, suo nemico religioso e politico, per aiutarlo. Gesù non si perde nei particolari per i primi due, cercando spiegazioni per il loro atto di omissione, motivato forse da ragioni rituali (il sangue e la morte rendevano impuri chi vi entrasse in contatto e ciò era rilevante per un sacerdote e un levita ai fini delle loro funzioni e del loro statuto). È curioso notare che nel Talmud, la raccolta delle antiche tradizioni giudaiche, si affronta il caso inverso di un ebreo che trova per strada un samaritano o un pagano feriti: naturalmente non è tenuto a prestare soccorso (’Abodah Zara’ 26).

 

ESSERE PROSSIMO PER CHI SOFFRE

          Gesù spazza via il legalismo che non conosce pietà e umanità per salvaguardare se stesso e si ferma, invece, sulla figura-modello del samaritano. Egli  autenticamente è “prossimo” del sofferente senza interrogarsi su chi sia questo “prossimo” da aiutare. «Si fa vicino» (10,34), le sue viscere si commuovono, come si dice letteralmente in greco nel versetto 33, il suo amore è operoso: fascia le ferite, vi versa vino e olio secondo i metodi del pronto soccorso antico, carica la vittima sulla sua cavalcatura, la depone solo quando giunge a uno dei caravanserragli che fungevano anche da albergo, per due volte si ripete il verbo “prendersi cura” (10,34-35), contribuisce anche alle spese successive con due denari. Il suo è un amore personale, sottolineato nell’originale dalla ripetizione del pronome greco autós (egli, lui): «passò vicino a luigli fasciò le ferite, lo caricò sul suo giumento, lo condusse alla locanda e si prese cura di lui... Prenditi cura di lui!».

Il sacerdote e il levita incarnano la rigida sacralità che separa dal prossimo; il samaritano rappresenta la santità che si unisce al dolore per salvarlo. È per questo che una tradizione antica ha visto nel ritratto del samaritano un’immagine di Cristo stesso. Sulle mura di un edificio crociato diroccato, sito ora lungo quella stessa strada e chiamato popolarmente “il khan (caravanserraglio) del Buon Samaritano”, un anonimo pellegrino medievale ha inciso in latino questo graffito: «Se persino sacerdoti o leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il Buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna».

          Più attenta all’impatto che doveva avere sull’uditorio di Gesù è la trascrizione attualizzata della parabola compiuta da un esegeta moderno, Vittorio Fusco: «Immagina tu, bianco razzista e magari affiliato al Ku Klux Klan, tu che fai chiasso se in un locale entra un negro e non perdi l’occasione per manifestare il tuo disprezzo e la tua avversione, immagina di trovarti coinvolto in un incidente stradale su una via poco frequentata e di star lì a morire dissanguato, mentre qualche rara auto con un bianco alla guida passa e non si ferma. Immagina che a un certo punto si trovi a passare un medico di colore e si fermi per soccorrerti...».

Certo è che nella parabola appare in tutto il suo splendore il messaggio cristiano dell’amore che pervade molte parole di Gesù, a partire dall’appello del Discorso della Montagna: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo5,43-44). Per giungere fino al testamento dell’ultima sera di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo: Amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amato, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,34-35). Anche in un apocrifo Vangelo di Tommaso Gesù ripete: «Ama il tuo fratello come l’anima tua. Proteggilo come la pupilla dei tuoi occhi». Contro la fredda determinazione oggettiva del prossimo meritevole o meno di soccorso, Cristo oppone l’“essere prossimo”, l’agire fraterno nei confronti di tutti coloro che sono nella sofferenza e che recano in sé l’impronta del divino perché tutti figli dello stesso Dio e fratelli dell’unico Lógos divenuto “carne”.

Card. GIANFRANCO RAVASI