Print Mail Pdf
condividi  Facebook   Twitter   Technorati   Delicious   Yahoo Bookmark   Google Bookmark   Microsoft Live   Ok Notizie

ravasi


«La fede è rischio, sento la fine e temo»

da Libero – 19 luglio 2021 – intervista di Alessia Ardesi.

Il Cardinale Giancfranco Ravasi (Merate, 1942) è il “ministro della cultura” della Chiesa Cattolica, essendo il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Nella sua immensa biblioteca, tra i classici della letteratura e le sacre scritture, non ci sono foto ma la statuetta archeologica georgiana di due asini che tirano un carro: l’immagine dalla fatica di vivere è anche quella di studiare e pensare il mondo.

Eminenza, qual è il suo primo ricordo?

«Un tramonto su una collina a Santa Maria Hoè, in Brianza. Qui ho sperimentato la mia prima malinconia: il fischio del treno Milano-Lecco che squarciava il silenzio».

Come mai parla di malinconia?

«Ho avuto la percezione della fine, della fragilità. L’idea che la realtà è instabile. Questo credo abbia condizionato la mia ricerca religiosa, il desiderio di qualcosa di eterno. C’è una frase del Paradiso che descrive in maniera nobile l’esperienza di Dante e la mia: “Come l’uom s’ etterna”».

Quando ha deciso di farsi prete?

«Non c’è una data precisa. La religione mi è sempre interessata. A scuola riuscivo bene, leggevo tantissimo. Cominciai la ricerca del nodo di senso, quello che Antoine de Saint-Exupéry spiegava così: “Nulla manca tranne il nodo d’oro che tiene insieme tutte le cose. E allora manca tutto”. Penso ci sia sempre stata omogeneità tra la mia vocazione spirituale e quella culturale, ereditata da mia mamma».

Perché?

«Era una donna molto intelligente, geniale, con una capacità intuitiva rara. Nella vita ho conosciuto persone molto dotate intellettualmente ma anche parecchie sciocche. Lo scrittore Bacchelli anni fa mi disse: “Reverendo, si ricordi che gli stupidi impressionano, non foss’altro che per il numero”. Sono una presenza di cui tener conto».

Ha mai avuto dubbi sulla sua fede?

«Il dubbio è presente, è componente del credere. Giobbe dice a Dio: “Quand’anche tu mi uccidessi, io continuerò a credere in te”. Nella sua fede c’è un elemento paradossale. L’itinerario del suo credere può comprendere persino la blasfemìa: giunge persino ad accostare Dio a un arciere sadico che scaglia frecce contro di lui, a un leopardo che affila gli occhi su di lui».

Cosa ne deriva?

«Che la fede è un’esperienza esistenziale ma anche un rischio. Il filosofo ottocentesco Kierkegaard lo spiega con un’abitudine del mondo orientale: quando una madre decide di svezzare il figlio, si tinge il seno di nero per evitare che si attacchi. Il bambino, non riconoscendo più l’oggetto del suo piacere, comincia ad avere dubbi sulla sua genitrice, arriva quasi a detestarla. Ma mai come in quel momento la mamma dimostra l’amore per la sua creatura permettendole di diventare libera».

Come è l’Aldilà?

«Invito anche con il pensiero ad andare oltre la pala del becchino (Ravasi sorride). Il famoso poeta austriaco Rilke lo definiva come l’altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi».

E secondo lei?

«Noi cattolici seguiamo la dottrina della risurrezione: una ricreazione, una nuova creazione nella quale, lo affermava anche Kant, non ci sono più le due categorie limitative dello spazio e del tempo. Quelle scintille che sono ancora in noi entrano in dimensioni diverse, il divino e l’umano vanno in collisione. Perché nel Cristo il divino penetra nell’umano, lo assume. Non solo, si china per consolarlo».

In che senso?

«Nel senso che anche Dio è morto come uomo prima di risorgere. Si è chiesta perché nei Vangeli la parte più lunga è quella della passione, anche se dura poche ore?».

No, come mai?

«Perché si cercano di descrivere tutte le modalità della sofferenza: Cristo che ha paura della fine, isolato degli amici, tradito, torturato. La morte per soffocamento e asfissia come nel Covid, perché sulla croce si muore così. E il silenzio del Padre, con il figlio che lo invoca: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Dentro il dolore è passato anche il Signore, che vi ha deposto un germe di eternità e quindi di rinascita».

E dunque Inferno, Purgatorio e Paradiso esistono?

«Sono condizioni dell’anima, non luoghi. Nell’Inferno si trova probabilmente chi ha rifiutato del tutto Dio. Se Lui ci ha dato la libertà, ci concede anche la libertà di rifiutarlo, di scegliere solo il male. Tuttavia il Signore, nella lotta estrema tra la vita e la morte, ci permette di fare l’ultima scelta».

Se possiamo condannare noi stessi in eterno possiamo anche salvarci?

«Santa Caterina da Genova chiede a Cristo: “Giuda è negli Inferi?”. Le risponde: “Se tu sapessi tutto quello che ho fatto per Giuda…”, facendole così sospettare si è salvato. Caterina sostiene poi che per arrivare a un pieno stato di comunione con il Signore la maggior parte di noi deve attraversare – ecco il Purgatorio – una purificazione, un fuoco interiore dell’anima, dai tanti atti di miserevole debolezza umana che abbiamo compiuto».

E il Paradiso?

«Ci sono esperienze che già in vita consentono di guadagnarsi il Paradiso. Come ad esempio le madri che hanno sofferto pene che io non sarei in grado di sopportare. Penso alle mamme sopravvissute al proprio figlio».

Non c’è speranza per chi è in Purgatorio?

«Certo che c’è. Il Paradiso è possibile solo se si depongono tutte quelle scorie di “male non radicale” che ci affliggono e ci appesantiscono».

E l’anima sarà immortale?

«L’immortalità dell’anima nella Bibbia è esplicita solo nel Libro della Sapienza che è stato scritto in greco. Esiste, invece, la ri-creazione dell’essere intero: la visione di Ezechiele nel c. 37. Nel Cristianesimo la risurrezione della carne è centrale. Io non ho un corpo; io sono un corpo».

Gesù sostiene che nell’Aldilà non ci saranno né moglie né marito, né fratello né sorella.

«Lo dice per confondere i sadducei, che volevano farlo cadere in trappola chiedendogli di chi sarebbe stata moglie nell’Aldilà una donna rimasta vedova che avesse sposato i sei fratelli del marito secondo la legge ebraica del levirato. Ma noi, una volta risorti, ritroveremo le persone care dentro una nuova creazione, affidata al Dio dei vivi e non dei morti, come dice Gesù».

Ha paura del tempo che passa?

«Sì, sento forte il senso della fine dentro di me. Ne ho timore anche se non faccio di tutto per eliminare il crepuscolo, come avviene oggi. Si vuole cancellare l’idea che siamo destinati a invecchiare. E quando giunge il termine della vita in alcuni casi si arriva alla pornografia della morte».

Pornografia?

«Mi riferisco, ad esempio, alle imprese funerarie che truccano il defunto prima di esporlo per mostrarlo giovane. In passato era diverso. Quando ero giovane e soggiornavo per archeologia nel Vicino Oriente, una famiglia di contadini mi invitò ad entrare nella loro casa per salutare il nonno deceduto. Ci trovai i nipoti che giocavano con le dita del nonno per capire se reagiva. In quella civiltà la morte era considerata parte della vita».

Scienza e umanesimo possono andare d’accordo?

«La scienza non può spiegare sempre tutto. Steve Jobs, nel suo ultimo discorso prima di morire, disse a migliaia di giovani: “È necessario il connubio tra la scienza e l'umanesimo, tra la tecnica e la dimensione poetico-spirituale perché dal cuore esca un canto”. Un’immagine che chiarisce bene come le macchine e la tecnologia rispondono a tante esigenze, però l’essere umano deve avere qualcosa di più».

Cioè?

«Pascal lo spiega sostenendo che “L’homme passe infiniment l’homme”, l’uomo si supera sempre, è imprevedibile, ha capacità grandiose ma anche perverse – basti pensare a certi crimini. La mente umana è straordinariamente complessa: nella scatola cranica abbiamo tra 80 e 100 miliardi di neuroni, tanti quanti sono le stelle della Via Lattea».

Ma allora la cultura umanistica deve prevalere sulla scienza o è il contrario?

«Da umanista sono curioso e mi interesso di neuroscienze, genetica e intelligenza artificiale. Cerco di comprendere l’importanza di intervenire, ad esempio, sul Dna per curare le malattie degenerative. Ma rifletto anche su quanti problemi etici, culturali e filosofici ne derivano».

E quindi?

«Non si può risolvere tutto a livello meramente “fisicalista”. Nel film “Il diritto di uccidere” un drone telecomandato riceve l’autorizzazione per distruggere una tenda rifugio di terroristi. L’improvvisa presenza di una bimba, lì per caso, costringerebbe la persona umana a revocare la missione. Non sappiamo, invece, quale possa essere la scelta di un drone. Questo apre a importanti riflessioni sui limiti dell’intelligenza artificiale».

Come si spiega che le chiese sono sempre più vuote? Non può essere solo un problema di comunicazione.

«Il linguaggio è cambiato ed è in continua trasformazione. Siamo in una società secolarizzata, abbiamo bisogno di parlare in modo comprensibile, senza penalizzare il contenuto, per essere incisivi. Ricordiamoci che il cristianesimo ha avuto inizio tra le catacombe. Ogni volta che tenta di entrare come elemento di potere, smentisce se stesso. Per questo bisogna partire dalla minorità».

In che senso?

«Avere la consapevolezza che essere minoranza è un valore. Possiamo e dobbiamo diventare una spina nel fianco, una testimonianza viva. Come i cristiani delle origini, che celebravano i loro riti nelle catacombe ma non rinunciavano a impegnarsi in pubblico. Noi oggi possiamo e dobbiamo provocare. Dire anche il contrario di ciò che è dominante, andare controcorrente. Cristo non ha avuto esitazione a circondarsi di cattivi compagni: prostitute, peccatori, apostoli che lo tradiscono. Ed è stato il primo e più grande comunicatore».

Senza avere a disposizione i mezzi di oggi.

«È stato Gesù a fare la prima televisione e il primo tweet. Attraverso la parabolane ha inventate trentacinque (o settantadue, se le valutiamo in senso più ampio) – ha comunicato l’immagine senza l’immagine».

E il tweet?

«Ha usato il lòghion, il detto folgorante, come “Rendete a Cesare quel che è di Cesare”. Cinquanta caratteri greci che racchiudono tutto. O “Convertitevi e credete nel Vangelo”: un tweet perfetto. C’è molto da imparare dalla modernità della sua predicazione. Anche perché quando si parla troppo si rischia l’effetto che Jonathan Swift ha descritto in un suo libello».

Vale a dire?

«Raccontava che San Paolo un giorno fece una predica così lunga e noiosa che un ragazzo che lo ascoltava sì addormentò e precipitò dalla finestra su cui era seduto facendosi molto male- anche se poi il santo lo guarì. Ecco perché non si deve parlare troppo sopra le teste delle persone: Gesù partiva dai piedi».