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LA LIBERTÀ SALVATA

La luce cristiana sulle vie dell’uomo

(V Congresso di Cultura cristiana – Lublino, 13 ottobre 2016)

Card. Gianfranco Ravasi

         È scontato riconoscere che il tema della libertà costituisca l’asse portante dell’antropologia cristiana attorno al quale si annodano e ruotano molte altre categorie e componenti. Per questo la nostra sarà un’indagine molto semplificata e per certi versi didascalica che comprenderà due tappe fondamentali. Nella prima intercetteremo attorno all’asse della libertà due dati teologici capitali, la fede-fiducia umana e la grazia divina. È in questo incrocio la struttura essenziale dell’atto libero alla luce della visione cristiana della persona. Nel secondo momento, invece, cercheremo di approfondire alcuni corollari, come la connessione dell’etica, della verità e della natura umana con la libertà, tenendo conto dell’incontro tra immanenza e trascendenza, cioè tra umano e divino che si attua all’interno della persona.

Fede tra grazia e libertà

         Nec religionis est cogere religionem. Lapidario è Tertulliano, con questo motto del suo scritto A Scapola (II, 2), nel riconoscere che nel cuore stesso della fede, ove pure impera la grazia divina, pulsa anche la libertà umana per cui «non è proprio della religione costringere alla religione». Un principio, purtroppo, non sempre rispettato dalle varie confessioni religiose, compreso il cristianesimo all’interno della sua storia secolare, ed è significativo che san Giovanni Paolo II abbia anche di queste prevaricazioni chiesto perdono nel Giubileo del 2000, così come ha fatto talora lo stesso Papa Francesco. Nell’analisi della fede dobbiamo, perciò, celebrare il primato della grazia divina, ma non possiamo assolutamente ignorare il necessario contrappunto armonico della libertà umana. Necessario perché la libertà è strutturale all’antropologia biblica e non solo alla concezione classica e moderna della persona.

         Non possiamo ora sviluppare questo tema inseguendo la trama dei testi biblici. Ci basti evocare due passi. Da un lato, la scena d’esordio delle Scritture: l’uomo e la donna sono collocati nei cc. 2-3 della Genesi all’ombra «dell’albero della conoscenza del bene e del male», un evidente simbolo della morale nei cui confronti la creatura si trova libera se accettarne il valore oppure, strappandone il frutto, decidere in proprio ciò che è bene e male. D’altro lato, citiamo un passo emblematico della sapienza d’Israele: «Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti, l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà. Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Siracide 15,14-17).

         La grazia divina, pur nella sua efficacia, scende non all’interno di un oggetto inerte ma in un essere libero che può accogliere o rifiutare quel dono, può aprire o lasciare chiusa la porta della sua anima a cui bussa il Signore che passa, per usare la celebre metafora dell’Apocalisse (3,20). Esprimeva bene questo intreccio delicato e fondamentale – sul quale si sono accaniti per secoli i teologi cercando di definirne l’equilibrio – un poeta italiano, il religioso servita p. David M. Turoldo (1916-1992), quando scriveva: «Sono certo che Dio ha scoperto me, ma non sono certo se io ho scoperto Dio. La fede è un dono, ma è allo stesso tempo una conquista». L’epifania divina ha mille forme in cui manifestarsi e non è sempre sfolgorante come sulla via di Damasco. Tuttavia non è mai così cogente da condurre a un assenso forzato e obbligato. L’adesione dev’essere personale, libera, anche faticosa. Siamo, infatti, consapevoli che l’esercizio della libertà è tutt’altro che semplice.

         Essere liberi, infatti, non è una pura e semplice reazione istintiva e “libertina”, né soltanto un sottrarsi a un’oppressione o a un’imposizione, ma è una scelta coerente e cosciente tra opzioni differenti per una meta da raggiungere. Per questo il drammaturgo tedesco Georg Büchner nella Morte di Danton (1834) affermava che la statua della libertà è sempre in fusione ed è facile scottarsi le dita. Vivere nella libertà autentica, come ricorda spesso anche san Paolo, è un atto impegnativo perché comporta un’esistenza rigorosamente cosciente, ed è sempre in agguato il rischio del ricadere in schiavitù. Come accade ai cani a cui si lancia un ramo secco o un oggetto e te lo riportano subito, così per molti la libertà è un elemento inutile che riportano subito nelle mani del potere. Questa è un’immagine di Dostoevskij e dal grande romanziere desumiamo una suggestiva riflessione sul nesso tra fede e libertà.

         Scriveva: «Tu non discendesti dalla croce quando ti si gridava: Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu! Perché una volta di più non volesti asservire l’uomo… Avevi bisogno di un amore libero e non di servili entusiasmi, avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio». Lo scrittore rievocava la scena del Golgota col Cristo morente sbeffeggiato dai passanti: «Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce! Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo!» (Matteo 27,39-42). Come durante la sua esistenza terrena aveva evitato gesti taumaturgici spettacolari, preoccupandosi solo di sanare le sofferenze umane, spesso in disparte dalla folla e imponendo il silenzio ai miracolati, così in quel momento estremo Gesù affida la sua rivelazione non al prodigio ma allo scandalo della croce. Egli non cerca adesioni interessate, ma invita a una fede libera e guidata dall’amore che è per eccellenza un atto di libertà.

         Senza questa dimensione la fede diventa parodia, come si intuisce dalla ricostruzione che Simone de Beauvoir faceva della sua crisi giovanile che le fece abbandonare la fede. Nelle sue Memorie di una ragazza perbene (1958) rievoca, infatti, il momento in cui in collegio, ascoltando una predica del cappellano p. Martin sull’obbedienza, si era fatta in strada in lei la necessità di liberarsi dall’incubo della religione, proprio perché essa – secondo quella visione che in realtà era una deformazione dell’autentica fede – comportava la cancellazione della libertà. Raccontava: «Mentre l’abate parlava, una mano sciocca si era abbattuta sulla mia nuca, mi faceva chinare la testa, mi incollava la faccia al suolo, per tutta la vita mi avrebbe obbligata a trascinarmi carponi, accecata dal fango e dalla tenebra; bisognava dire addio per sempre alla verità, alla libertà, a qualsiasi gioia».

         Per questo è importante un annuncio corretto della fede che, senza concedere nulla a un accomodamento troppo facile, a un compromesso generico e comodo, non deformi però la vera anima della fede, introducendo un volto sfigurato di Dio, quella che Lutero chiamava la simia Dei, cioè la “scimmiottatura di Dio”. Il credere genuino non è schiavitù ma libertà, non è imposizione ma ricerca, non è obbligo ma adesione, non è cecità ma luce, non è tristezza ma serenità, non è negazione ma scelta positiva, non è incubo minaccioso ma pace. Come affermava in un suo saggio, Vivere come se Dio esistesse il teologo tedesco Heinz Zahrnt, «Dio abita soltanto là dove lo si lascia entrare». Questa scelta comporta – come in ogni opzione libera – un aspetto di rischio. Entra, così, in azione un lineamento ulteriore che è la fiducia.

Libertà e fiducia

         La fiducia è la famosa fides qua teologica, ossia la fede “con la quale” si aderisce confidando in Dio e che fa accogliere la fides quae, cioè i contenuti della Rivelazione divina che il credere ci manifesta. Abramo, che «per fede, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità e partì senza sapere dove andava» (Ebrei 13,8), ne è l’esempio archetipico biblico. Per continuare il contrappunto che abbiamo adottato tra teologia e cultura, vorrei al riguardo evocare i versi di un’importante scrittrice italiana con la quale personalmente ebbi un dialogo intenso negli ultimi anni della sua vita, Lalla Romano, scomparsa nel 2001: «Fede non è sapere / che l’altro esiste / è vivere / dentro di lui / calore / nelle sue vene / sogno / nei suoi pensieri. / Qui aggirarsi / dormendo / in lui destarsi». Certo, la fede è anche sapere, conoscere, comprendere, ma non è pura e semplice dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio. È molto di più.

         L’incontro tra fede e libertà è, dunque, complesso perché suppone innanzitutto l’incontro tra antropologia e teologia, cioè tra l’immanenza e la trascendenza, tra la creaturalità e la divinità, tra l’uomo/donna e Dio. Un incontro nel quale nessuno dei due protagonisti deve prevaricare sull’altro. Da un lato, la creatura umana, dotata di libertà, non può ignorare il creatore e la sua parola e, quindi, deve compiere una scelta libera ascoltando o rifiutando quella parola. Dio, d’altro lato, ha scelto di avere di fronte a sé un interlocutore libero e non una stella regolata da meccaniche celesti obbligatorie e, quindi, rispetta la decisione umana, anche negativa, pur non restando indifferente, e qui entra in scena il tema del giudizio morale sul bene e sul male.

         Ma l’incrocio tra fede e libertà suppone anche una dimensione squisitamente interna all’antropologia. Nella coscienza umana l’opzione fondamentale nei confronti di Dio e della sua parola coinvolge ragione e fede che sono due volti della libertà. C’è, dunque, innanzitutto la verifica razionale legittima e necessaria tant’è vero che s. Agostino non esita a dichiarare che «la fede se non è pensata è nulla» perché la persona credente «pensando crede» e «credendo pensa». Naturalmente il limite creaturale fa sì che il mistero trascendente, cioè la nous, la “mente” di Dio, come dice s. Paolo (1Corinzi 2,16), o la ‘esah, il “progetto” divino, come si esprime il libro di Giobbe (42,3), non possono essere esauriti dalla mente e dal progetto umano. È per questo che può scattare la duplice scelta dell’adesione e del rifiuto.

         L’adesione, come si diceva, è la fede che ha al suo interno un duplice profilo che non esclude la ragione (la fides quae) ma che esige un ulteriore canale di conoscenza, quello della fiducia, dell’amore, della confidenza (la fides qua), emblematicamente espressa nell’ascesa drammatica di Abramo sul monte Moria obbedendo all’ sconvolgente comando divino del sacrificio del figlio, una vicenda sulla quale ha scritto pagine memorabili il filosofo Soeren Kierkegaard nel suo saggio Timore e tremore. La persona umana ha, infatti, una conoscenza polimorfa: essa comprende la via razionale ma anche quella d’amore, il metodo scientifico ma anche l’intuizione estetica, la sperimentazione sensoriale ma anche l’astrazione intellettuale e così via. In questa luce si comprende la funzione decisiva della libertà che s’affida e confida in Dio. Ed è su questo aspetto fiduciale che vogliamo concludere con una riflessione di indole testimoniale e culturale.

         La fede nel suo ultimo stadio è, infatti – come per altro insegna la grande mistica (si pensi solo a Giovanni della Croce) – incontro, fiducia, abbraccio, amore; è vivere in Dio, condividendone pensieri, sogni, scelte, anche nella notte oscura della prova. È addormentarsi con lui per risvegliarsi ancora accanto a lui, come confessa il Salmista: «In pace mi corico e subito mi addormento: tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare» (Salmo 4,9). La fiducia ha il suo vaglio di autenticità nel tempo tenebroso della sofferenza o del silenzio di Dio, quando il volto divino scompare, la sua parola tace, la sua presenza si tramuta in assenza. Giobbe coinvolto in pieno nella tenebra, non cessa di credere e di aver fiducia: «Quand’anche Egli mi ucciderà, non me ne lamenterò» (13,15).

         La tradizione giudaica mette in scena in una parabola un ebreo sfuggito all’Inquisizione spagnola con moglie e figlio che, durante una tempesta, approda in un’isola. Lì, però, un fulmine uccide la moglie e un’onda trascina in mare il ragazzo. Solo, nudo, flagellato dalla tempesta, atterrito, errabondo su quell’isola rocciosa, leva la sua voce al cielo: «Dio d’Israele, sono finito! Proprio ora, però, non ti posso servire se non liberamente. Tu hai fatto di tutto perché io non creda più in te. Bene, te lo dico, Dio mio e dei miei padri, tu non ci riuscirai. Puoi colpirmi, puoi prendermi i miei beni, quello che mi è più caro al mondo, puoi torturarmi a morte: io crederò sempre in te, ti amerò sempre, tuo malgrado!». Evidente è il paradosso, ma in questa ripresa che è la stessa del dramma di Giobbe, brillano la totale libertà del credente e la sua assoluta fiducia in Dio.

La libertà tra immanenza e trascendenza

         Nella prefazione al suo Tractatus logico-philosophicus (1921) il filosofo viennese Ludwig Wittgenstein, illustrando lo scopo della sua ricerca, affermava che era sua intenzione investigare i contorni di un’isola, ossia l’uomo circoscritto e limitato. Ma ciò che aveva alla fine scoperto erano le frontiere dell’oceano. La metafora è chiara: se si percorre il litorale di un’isola, guardando solo al suo tracciato terrestre, si riesce a computarla, definirla, identificarla. Ma se lo sguardo si volge verso l’altro versante della costa, si intuisce il distendersi del mare infinito. In sostanza nell’essere umano si ha un intreccio tra la finitudine e l’infinito, tra un contingente sperimentale e un oltre altrettanto significativo ma più imponderabile. La scelta libera si colloca all’interno di questa duplicità.

         Nella storia del pensiero si sono, così, confrontati due modelli estremi. C’è chi ha optato solo per l’isola, scegliendo le varie forme di immanentismo, coi loro corollari gnoseologici, etici, esistenziali, persino sociali. Essi potevano anche esasperarsi, come nel razionalismo, nel materialismo, nel fenomenismo, nel relativismo, nel soggettivismo, nel secolarismo, nello stesso postumanesimo e in certi approcci tecnologici radicali. L’antropologia risulterebbe, così, amputata da ogni dimensione trascendente, fissandosi solo su un orizzonte privo di verticalità. C’è, però, anche l’estremo opposto del trascendentalismo, che si protende soltanto verso l’oceano, il mistero, l’infinito e l’eterno, talora decollando dalla realtà verso il cielo purissimo ma astratto del dogmatismo, del fondamentalismo, dell’ideologismo e persino dell’assolutismo sacrale.

         Bisogna, però, ricordare che un’ampia porzione della ricerca filosofica e soprattutto teologica si è invece sforzata di tenere insieme “simbolicamente” le due sponde, la terrena e l’infinita, combattendo ogni radicalismo esclusivista. Certo, l’equilibrio è delicato perché deve tenere intrecciate tra loro dimensioni dotate di una loro autonomia come la fisica e la metafisica, la prassi e l’etica, la storia e l’eterno. Già la cultura classica, soprattutto greca, è stata veramente esemplare nel compiere questa operazione “sim-bolica”. Proponiamo solo qualche esempio in modo molto semplificato.

         Platone svela nel suo Iperuranio la presenza dei tre grandi trascendentali del Vero, del Bene e del Bello: essi si irradiano e vengono partecipati divenendo il fondamento di ogni ente, di ogni razionalità, di ogni etica. Aristotele – seguito poi da s. Tommaso d’Aquino – punterà, invece, a un vertice unico supremo, l’Essere, primo motore perfetto e immobile, principio però dell’uno, del vero, del bene e “pensiero del pensiero” di ogni essere umano. Plotino, col neoplatonismo e con la successiva riflessione agostiniana, porrà all’apice il Nous trascendente, una Mente che è Essere e Bene divino dalla quale procede la totalità degli esseri, in una sequenza decrescente di perfezione fino al livello estremo ove l’essere si dissolve nel nulla.

         Tutte queste concezioni, pur nelle loro diversità e variazioni, cercano di comporre un nesso stretto tra il trascendente e l’immanente. Se vogliamo stare al livello della scelta morale, bisogna riconoscere che, quanto più ci si distacca dal bene trascendente – attraverso le opzioni negative della libertà umana –, tanto più cresce e imperversa l’immoralità, cioè l’empietà, la falsità, l’odio, la bruttura etica e la bruttezza estetica. Questa prospettiva ha una sua rappresentazione molto suggestiva nell’antropologia della Bibbia che è, pur sempre, il nostro “grande codice culturale”. Bisogna innanzitutto ricordare che, soprattutto per il cristianesimo (ma i prodromi sono già nella “rivelazione storica” dell’Antico Testamento), fondamentale è proprio il legame tra trascendenza e immanenza.

         Emblematica al riguardo è la scena iniziale della stessa Bibbia che abbiamo sopra già evocato: l’uomo e la donna sono posti, nei cc. 2-3 della Genesi,  all’ombra «dell’albero della conoscenza del bene e del male», un albero intoccabile, cioè trascendente e preesistente, fisso nella sua entità che precede ed eccede la pur reale libertà umana. Quell’albero diventa, quindi, il simbolo della morale. Certo, la scelta libera della persona può accogliere quella determinazione trascendente del bene e del male, oppure, strappandone il frutto, decidere in proprio ciò che è bene e male, relativizzando così l’assolutezza dei valori morali. La stessa rappresentazione è presente nel Decalogo che è proposto dall’alto della vetta del Sinai, dalla voce divina, simbolo della trascendenza dell’etica che è in sé codificata. Ma anche in questo caso, decisiva è la libertà umana che può accogliere, custodire e osservare la legge morale, oppure ricomporla a suo piacimento, come accade nell’episodio altrettanto simbolico del vitello d’oro (Esodo 32).

Il concetto di verità

         Come è evidente, in questa concezione etica è fondamentale il nesso e l’interazione tra assoluto e libertà, tra oggettivo e soggettivo, tra precetto e opzione, tra trascendenza e immanenza. Un legame molto delicato e complesso che è, comunque, l’anima stessa della morale classica e giudeo-cristiana e che ha un valore parallelo in un altro ambito affine a cui vorremmo ora accennare perché altrettanto significativo. Intendiamo riferirci alla categoria verità. Se noi seguiamo il percorso culturale di questi ultimi secoli, infatti, possiamo dire che il concetto di verità è diventato sempre più immanente e soggettivo fino ad arrivare al “situazionismo” del secolo scorso. Si pensi, ad esempio, alla frase significativa e spesso citata, attinta al Leviathan del filosofo inglese secentesco Hobbes: Auctoritas, non veritas facit legem. In ultima analisi è, questo, il principio del contrattualismo, secondo il quale l’autorità, sia civile sia religiosa, può decidere la norma e, quindi, indirettamente la verità, in base alle convenienze della società e ai vantaggi del potere secondo le circostanze contingenti.

         Tale concezione fluida della verità è ormai abbastanza acquisita nella cultura contemporanea. Basti pensare all’antropologia culturale. Infatti, il filosofo francese Michel Foucault, studiando le diverse culture e le loro variabili comportamentali, invitava caldamente ad accentuare questa dimensione soggettiva e mutevole della verità, simile a una medusa cangiante, che cambia aspetto continuamente a seconda dei contesti e delle circostanze. Questo soggettivismo è sostanzialmente ciò che Benedetto XVI ha chiamato “relativismo”, ed è curioso notare come la pensatrice americana, Sandra Harding, facendo il verso a una celebre frase del Vangelo di Giovanni (8,32: «La verità vi farà liberi»), affermava al contrario in un suo saggio che «la verità non vi farà liberi». Essa, infatti, viene concepita come una cappa di piombo oppressiva, come una pre-comprensione, come una sterilizzazione della dinamicità e dell’incandescenza della libertà del pensiero umano.

         Tutte le religioni, e in particolare il cristianesimo, hanno invece una concezione trascendente della verità: la verità ci precede e ci supera; essa ha un primato di illuminazione, non di dominio. Anche se Theodor Adorno l’aveva applicata soprattutto alla felicità, è suggestiva una sua espressione tratta dai Minima moralia. Il filosofo tedesco, parlando della verità e comparandola appunto alla felicità, dichiara: «La verità non la si ha, ma vi si è», cioè si è immersi in essa. Robert Musil, nel suo famoso romanzo L’uomo senza qualità, al protagonista fa dire una frase interessante: «La verità non è come una pietra preziosa che si può mettere in tasca, bensì è come un mare nel quale ci si immerge».

         Si tratta, fondamentalmente, della classica concezione platonica espressa nel Fedro mediante l’immagine della “pianura della verità”: la biga dell’anima corre su questa pianura preesistente ed esterna per conoscerla e conquistarla. Proprio per questo, nella Apologia di Socrate, lo stesso filosofo affermava: «Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta». È questo l’itinerario da compiere nell’orizzonte “dato” e, quindi, trascendente della verità. Da tale punto di vista le religioni sono nette: la verità ha un primato che ci supera, la verità è appunto trascendente, e compito dell’uomo è essere pellegrino, con la sua libera ricerca, all’interno dell’assoluto della verità. Per questo in esse si considera divina la verità: non per nulla il cristianesimo applica a Cristo l’identificazione con la verità per eccellenza (Giovanni 14,6: «Io sono la Via, la Verità, la Vita»).

Il concetto di “natura umana”

         Ma ritorniamo alla specificità del nostro tema con un’ultima riflessione su un’altra categoria capitale per quanto concerne il rapporto tra libertà e trascendenza. Accade spesso che nelle esperienze del cosiddetto “Cortile dei Gentili” – cioè del dialogo tra credenti e non credenti da svolgere nello spazio aperto e libero della discussione fuori del Tempio e del Palazzo – ci si interroghi sulla possibilità o meno di avere una piattaforma comune di incontro. Il discorso punta, allora, sul concetto di natura umana: essa può essere concepita in senso metafisico e quindi trascendente, oppure deve ridursi a una mera proceduralità sociale, priva di indicazioni morali “oggettive”?

         Ebbene, in questi ultimi tempi attorno a una tale categoria antropologica basilare si è abbattuta una bufera che ne ha scosso le fondamenta: basti solo pensare al “politeismo dei valori” registrato da Weber o anche al puro e semplice pluralismo culturale. La domanda, allora, è questa: è possibile recuperare un concetto condiviso di “natura” antropologica che superi la mera fenomenologia delle possibili opzioni, che abbia quindi un fondamento che trascenda la mutabilità dei costumi e che quindi impedisca di scivolare nelle sabbie mobili del già evocato relativismo e di una libertà assoluta, cioè sciolta da ogni vincolo etico oggettivo e destinata a sfociare in una molteplicità sfaldata e babelica?

         Nella storia del pensiero occidentale attorno a questa categoria possiamo individuare come due grandi fiumi interpretativi, dotati di tante anse, affluenti e ramificazioni ma ben identificabili nel loro percorso. Il primo ha la sua sorgente ideale nella filosofia aristotelica che – come già si diceva – per formulare il concetto di natura umana ha attinto alla matrice metafisica dell’essere. La base è, perciò, oggettiva e trascendente, iscritta nella realtà stessa della persona, e funge da stella polare necessaria per l’etica. Questa concezione, dominante per secoli nella filosofia e nella teologia, è icasticamente incisa nel motto della filosofia scolastica medievale Agere sequitur esse, il dover essere nasce dall’essere, l’ontologia precede la deontologia.

         Questa impostazione piuttosto granitica e fondata su un basamento solido ha subìto in epoca moderna una serie di picconate, soprattutto quando – a partire da Cartesio e dal riconoscimento dell’importanza della soggettività (cogito, ergo sum) – si è posta al centro la libertà personale. Si è diramato, così, un altro fiume che ha come sorgente il pensiero kantiano: la matrice ora è la ragione pratica del soggetto col suo imperativo categorico, il “tu devi”. Al monito della “ragione”, della legge morale incisa nella coscienza, si unisce la “pratica”, cioè la determinazione concreta dei contenuti etici, guidata da alcune norme generali, come la “regola d’oro” ebraica e cristiana («non fare all’altro ciò che non vuoi sia fatto a te» e «fa’ all’altro ciò che vuoi ti si faccia») o come il principio “laico” del non trattare mai ogni persona come mezzo bensì come fine.

         La metamorfosi è significativa: al trascendentale ontologico aristotelico-tomistico si sostituisce il trascendentale gnoseologico, la cosiddetta “conoscenza a priori” o ragione universale. La trascendenza è, dunque, affermata ma è assegnata alla legge interna dello spirito umano. Essa regola l’esperienza e le varie conoscenze e scelte etiche parziali personali. Famosa è la finale della Critica della ragion pratica (1788), ove si afferma una duplice trascendenza, quella fisico-cosmica e quella morale umana: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre nuove e crescenti quanto più spesso e a lungo il pensiero vi si sofferma: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me (der bestirnte Himmel über mir und das moralische Gesetz in mir)».

         Frantumata da tempo la metafisica aristotelica, si è però assistito nell’epoca contemporanea anche alla dissoluzione della ragione universale kantiana che pure aveva una sua “solidità”. Ci si è trovati, così, su un terreno molle, ove ogni fondamento si è sgretolato, ove il “disincanto” ha fatto svanire ogni discorso sui valori, ove la secolarizzazione ha avviato le scelte morali solo sul consenso sociale e sull’utile per sé o per molti, ove il multiculturalismo ha prodotto non solo un politeismo religioso ma anche un pluralismo etico. Al “dover essere” che era stampato nell’essere o nel soggetto si è, così, sostituita solo una normativa procedurale o un’adesione ai mores dominanti, cioè ai modelli comuni esistenziali e comportamentali di loro natura mobili.

         È possibile reagire a questa deriva che conduce all’attuale delta ramificato di un’etica variabile così da ricomporre una nuova tipologia di “natura” che conservi un po’ delle acque dei due fiumi simbolici sopra evocati senza le rigidità delle loro mappe ideologiche? In parallelo ma anche in autonomia rispetto alla netta concezione della trascendenza teologica ed etica propria della religione, molti ritengono che sia possibile creare un nuovo modello filosofico-morale centrato su un altro assoluto, la dignità della persona, còlta nella sua qualità relazionale. Si unirebbero, così, le due componenti dell’oggettività (la dignità) e della soggettività (la persona) legandole tra loro attraverso la relazione all’altro, essendo la natura umana non monadica e chiusa in se stessa ma dialogica, non cellulare ma organica, non solipsistica ma comunionale. È questo il progetto della filosofia personalistica (pensiamo ai contributi di Buber, Lévinas, Mounier, Ricoeur).

         La natura umana così concepita recupera, allora, una serie di categorie etiche classiche che potrebbero dare sostanza al suo libero agire e al suo realizzarsi. Proviamo ad elencarne alcune. Innanzitutto la virtù della giustizia che è strutturalmente ad alterum e che il diritto romano aveva codificato nel principio Suum cuique tribuere (o Unicuique suum): a ogni persona dev’essere riconosciuta una dignità che affermi l’unicità ma anche l’universalità per la sua appartenenza all’umanità. Parlavamo sopra di parallelo con la religione: nella stessa linea procede la cultura ebraico-cristiana col Decalogo che evoca i diritti fondamentali della persona alla libertà, alla vita, all’amore, all’onore, alla religione, alla proprietà. Nella stessa prospettiva si colloca la citata “regola d’oro”.

         In sintesi, l’imperativo morale fondamentale si dovrebbe ricostruire partendo da un’ontologia personale relazionale, in pratica dalla figura universale (e cristiana) del “prossimo” e dalla logica dell’amore nella sua reciprocità ma anche nella sua gratuità e donazione. Per spiegarci in termini biblici a tutti noti: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (reciprocità), ma anche «non c’è amore più grande di chi dà la vita per la persona che ama» (donazione). Inoltre, in senso più completo, nel dialogo “io-tu” è coinvolto – come suggeriva il filosofo francese Paul Ricoeur – pure il “terzo”, cioè l’umanità intera, anche chi non incontro e non conosco ma che appartiene alla comune realtà umana. Da qui si giustifica, allora, anche la funzione della politica dedicata a costruire strutture giuste per l’intera società. La riflessione attorno a questi temi è naturalmente più ampia e complessa e dovrebbe essere declinata secondo molteplici applicazioni, ma in ultima analisi potrebbe essere fondata su un dato semplice, ossia sulla nostra più radicale, universale e costante identità personale dialogica. È in essa che si esplica la libertà nella sua autentica dimensione etica.