Anche se le reazioni saranno forti e di segno opposto, l’approdo della Santa Sede in laguna con un suo padiglione alla Biennale d’Arte vorrebbe avvenire in modo sommesso e quasi sperimentale, nonostante che la preparazione sia stata lunga e laboriosa. Ciò è accaduto non tanto per questioni pratiche di selezione e di allestimento, quanto piuttosto per un duplice antefatto che si distende lungo l’arco di buona parte del secolo scorso e che cercheremo di esaminare in modo molto essenziale.

 

         Arte e fede, un connubio infranto

         Iniziamo con la prima indiscutibile registrazione riguardante il divorzio che si è consumato tra arte e fede (in particolare con la liturgia). Alle spalle si aveva una storia totalmente differente e non è certo necessario ricorrere allo stereotipo della Bibbia «grande codice» della cultura occidentale, coniato da William Blake e approfondito dall’omonimo saggio di Northrop Frye (1982), per illustrare questo vincolo di sororità naturale tra arte e fede.

         Quest’alleanza spontanea e feconda era durata a lungo, tant’è vero che «i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia», come affermava Chagall, considerandola una sorta di «atlante iconografico» o di «immenso vocabolario» (e quest’ultima era un’espressione dello scrittore francese Paul Claudel). Basterebbe solo sfogliare i tre grossi tomi che Louis Réau pubblicò a Parigi tra il 1955 e il 1959 sull’Iconographie de l’art chrétien, per documentare questo incessante connubio tra arte e fede. E, come giustamente suggeriva Ernst Hans Gombrich, questa iconologia rispondeva a criteri ben precisi che non erano solo di indole estetica, ma si ancoravano al cuore stesso del messaggio cristiano. Ne era consapevole anche la teologia: uno dei primi cantori del valore spirituale delle immagini, san Giovanni Damasceno (VII-VIII sec.), invitava il non credente desideroso di conoscere la fede cristiana non a un dibattito teologico, bensì a entrare in una chiesa e a contemplare i dipinti e le statue là presenti. Questo Padre della Chiesa d’Oriente scriveva: «Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede!”, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri» (Patrologia Graeca 95, 325).

         Si codificava così quella via pulchritudinis che conduceva dalla bellezza artistica alla suprema Bellezza divina, «all’etterno dal tempo», per usare un’icastica formula dantesca (Paradiso XXXI, 38). Questa via, che nell’arte aveva la sua argomentazione più efficace, è stata una sorta di fil rouge teso lungo i secoli e anche recentemente riproposto, a livello teologico e quindi teorico-tematico, da quella monumentale sintesi che è l’opera Gloria di Hans Urs von Balthasar, significativamente sottotitolata Un’estetica teologica (sette tomi tra il 1961 e il 1969).

Certo, il rischio idolatrico, che è sempre in agguato, rende spesso sorvegliato ed esitante il nesso tra arte e fede, sulla base del celebre monito biblico del Decalogo di «non farsi immagine alcuna» di Dio (Esodo 20, 4), così da evitare la prostrazione davanti al vitello d’oro, ossia il passaggio dall’eidolon, in greco “immagine”, all’“idolo” puro e semplice. Questa precauzione poteva, però, esasperarsi e degenerare: è ciò che accadde con l’iconoclasmo, a partire dall’VIII secolo in Oriente o, più tardi, in Occidente con la Riforma protestante nelle sue espressioni più radicali. Queste ondate bianche aniconiche e spiritualistiche non potevano, però, ignorare che alla radice del ricorso all’arte c’era il cuore stesso del messaggio cristiano, ossia l’Incarnazione.

         Secondo la fede cristiana, infatti, nel volto di Gesù Cristo si rende visibile il Dio invisibile. Come dichiara san Paolo (Colossesi 1, 15), Dio ha la sua eikón, la sua “icona-immagine” perfetta, proprio in Gesù di Nazaret. Ma già il libro della Genesi riconosceva nell’uomo e nella donna «l’immagine (eikón) e la somiglianza» divina. È sulla base di questo principio cristologico e antropologico che l’arte acquista un rilievo non solo estetico, ma anche teologico. Come in Gesù Cristo si ha «il visibile dell’Invisibile», per usare l’espressione di Dionigi l’Areopagita (pseudonimo di un teologo del V-VI secolo), così l’arte per analogia presenta non tanto ciò che si vede, ma l’Invisibile trascendente che si annida nella realtà, parafrasando le parole e le idee che Paul Klee aveva sviluppato nella sua Confessione creatrice (1920). In questa luce si comprendono le parole suggestive della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II sulla quale ritorneremo: «In un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei sacramenti, essa rende presente il mistero dell’Incarnazione. Proprio per questo, la bellezza dell’icona può essere soprattutto gustata all’interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce».

Era talmente consolidata questa concezione estetico-teologica che il monaco e teologo Teodoro Studita (VIII-IX sec.) giungeva al punto di affermare che, «se l’arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato». Ed è significativo, in questa linea, che la prima immagine più alta e amata sia in Oriente il leggendario mandylion, cioè il volto di Cristo «non dipinto da mano d’uomo», che avrà la sua variante occidentale nel “Velo della Veronica”. È questo intreccio tra motivazioni teologiche e istanze artistiche a dare origine all’alleanza tra fede e bellezza, un’alleanza destinata a durare per secoli con epifanie altissime ed espressioni popolari (si pensi solo a quel piccolo oceano cromatico e iconografico che è costituito dagli ex-voto) e che ha la sua formalizzazione programmatica nella citatissima considerazione di Dostoevskij nei Demoni: «L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui».

Negli Statuti d’arte dei pittori senesi del Trecento si leggeva: «Noi siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede». Già san Gregorio Magno nel VI secolo esortava a impegnarsi perché qui litteras nesciunt…in parietibus videndo legant, ossia che gli analfabeti potessero leggere la Bibbia sugli affreschi o sui quadri delle pareti. Ora, si deve riconoscere che da tempo, a partire soprattutto dal secolo scorso, questa alleanza si è infranta. L’arte ha lasciato il tempio, l’artista ha relegato su uno scaffale polveroso la Bibbia e si è avviato lungo le strade “laiche” della contemporaneità, rifuggendo da ogni figura, simbolo, narrazione, parabola sacrale. Oppure, abbandonando la concezione secondo la quale l’opera d’arte incarna una visione dell’essere, anzi «crea un mondo», come suggeriva il filosofo tedesco Martin Heidegger, l’artista si è dedicato solo a sperimentazioni estetiche fine a se stesse, a mere ricerche stilistiche o a provocazioni dissacranti.

Nello stesso tempo il teologo si è rivolto esclusivamente alla speculazione sistematica che crede di non aver bisogno di segni e metafore, anzi, ha relegato il grande repertorio simbolico nel deposito del passato; il pastore d’anime si è accontentato dell’artigianato; le chiese, disegnate da modesti costruttori di condomini, si sono popolate di oleografie e di brutte raffigurazioni. Il grande archeologo dell’Oriente cristiano Guillaume de Jerphanion aveva intitolato la sua trilogia sulle chiese rupestri della Cappadocia Voix des monuments (1930): ecco, questa “voce dei monumenti”, che per secoli ha cantato nelle chiese, nei palazzi episcopali, negli edifici cristiani, ora o tace o è rara, oppure risuona in modo sgraziato e sgangherato. È da qui che nasce il desiderio di un incontro tra due mondi un tempo così “sovrapponibili”, overlapping, per dirla con una curiosa formula adottata per il dialogo tra scienza e fede, ma oggi divenuti reciprocamente estranei.

         Si tratta di un percorso arduo e complesso, che deve superare sospetti ed esitazioni, timori di strumentalizzazione, paure di degenerazioni. È un percorso, però, che è già stato avviato, ad esempio, con l’architettura che ha visto una piccola folla di “archistar” cimentarsi – non sempre con successo – nell’edificazione dello spazio sacro, a partire dal gioiello di Ronchamp con Le Corbusier, per scendere giù verso le opere di Aalto, Michelucci per approdare a Meyer, Siza, Ando, Botta, Piano, Fuksas e così via elencando. La fatica di questo incontro è spesso dovuta al fatto che non si compie un pieno dialogo tra architettura e liturgia, tra istanze formali estetiche ed esigenze funzionali sacre, tra la stessa struttura architettonica e il necessario “arredo” artistico, essendo appunto l’immagine una componente capitale nel culto cristiano.

        

Arte e fede, un incontro necessario

         A questo punto dobbiamo introdurre un secondo ma decisivo antefatto di taglio positivo. La Chiesa stessa nella sua massima autorità, ossia nel magistero pontificio, si è opposta alla deriva di una rassegnata discrasia tra arte e fede. I Papi hanno voluto stimolare la comunità ecclesiale e risanare il divorzio che abbiamo registrato. Basterà ora offrire solo qualche esemplificazione sintetica, a partire da quell’evento capitale della Chiesa che fu il Concilio Vaticano II. Nell’atto solenne di chiusura in piazza San Pietro dell’8 dicembre 1965, i Padri conciliari, tra i vari messaggi alle diverse categorie sociali e professionali, indirizzarono queste parole agli artisti: «Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani».

Alle spalle di quel momento solenne c’era un altro evento compiutosi nell’anno precedente. Nella Cappella Sistina una folla di artisti delle varie discipline era stata convocata il 7 maggio 1964 da Paolo VI. A loro il Pontefice aveva rivolto un appassionato discorso nel quale proponeva di ristabilire una nuova alleanza tra arte e fede, sulla scia del passato glorioso e nella consapevolezza che la grande sfida dell’artista è quella di «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità». Egli, però, era consapevole del rilievo culturale e spirituale generale di una simile operazione, perché noi ora sperimentiamo «la sofferta testimonianza di una tragica assenza, il bisogno insopprimibile di qualcosa, anzi di Qualcuno che dia senso all’effimero, all’altrimenti assurdo agitarsi nel tempo e nello spazio di questo mondo finito». Si trattava di un discorso di straordinaria intensità e originalità che meriterebbe una lettura integrale.

         Passarono vari anni, purtroppo privi di esiti particolarmente significativi che segnassero un’inversione di marcia rispetto a quella deriva a cui abbiamo accennato. Fu così che nella Pasqua del 1999 Giovanni Paolo II – come già si è detto – indirizzò una Lettera agli artisti perché con loro si rinverdisse «quel fecondo colloquio che in duemila anni di storia non si è mai interrotto…, un dialogo non dettato solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell’essenza stessa sia dell’esperienza religiosa sia della creazione artistica». Sorprendente era in quelle pagine la filigrana di rimandi culturali, ma anche il fondamento teologico che permetteva di esaltare la parentela intima tra la fede cristiana e l’arte: «La vostra arte contribuisca all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfigura la materia, aprendo gli animi al senso dell’eterno».

         Giungiamo, così, all’ultima tappa di questo riavvicinamento: essa costituisce il naturale portale di ingresso al padiglione della Santa Sede a Venezia. La testimonianza ora può anche avere un risvolto autobiografico, essendo tale atto ufficiale legato alla mia presenza a capo del Pontificio Consiglio della Cultura a partire dal 2007 per volere di Benedetto XVI. Fu proprio il Papa che ci ha lasciati nel febbraio 2013 ad accogliere il mio invito a commemorare il decennale della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II con un incontro analogo a quello voluto da Paolo VI nel 1964: il 21 novembre 2009, nella Cappella Sistina, suprema attestazione del dialogo tra arte e fede, quasi trecento artisti di tutte le espressioni – pittori, scultori, architetti, musicisti, letterati, allargandosi però anche al teatro, al cinema, al design, alla fotografia, alla video-art e così via – si sono presentati davanti a Benedetto XVI.

         A loro egli donò una medaglia papale specifica con l’immagine michelangiolesca della chiamata dall’alto di san Paolo sulla via di Damasco, desunta dall’affresco della Cappella Paolina, e rivolse un discorso molto articolato che ora evochiamo solo in un frammento: «Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la meta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente».

         Per rendere più continuo questo legame, in occasione dei 60 anni di sacerdozio di Benedetto XVI, sessanta artisti delle varie discipline furono invitati ciascuno a elaborare un’opera che venne offerta al Papa durante una mostra intitolata Lo splendore della Verità. La bellezza della Carità, aperta dal 5 luglio al 4 settembre 2011. In quella esposizione si passava, così, da una deliziosa “sequenza palinsesto” filmica di Pupi Avati, con un collage di immagini delle firme più importanti del cinema italiano, a straordinarie partiture musicali di Arvo Pärt ed Ennio Morricone, da sculture di Aceves, Amodei, Azuma, Ceroli, Ducrot, Giuliani, Kounellis, Pomodoro e altri a dipinti di Cano, Cole, Pericoli, Perilli, Rainaldi, Zigaina e così via fino a fotografie di Henzler, Jodice, Schaller, e a modelli architettonici di Botta, Calatrava e Portoghesi e a vari testi poetici.

 

L’approdo della Santa Sede alla Biennale     

         Si riprendeva, così, idealmente quel dialogo che per secoli ebbe soprattutto papi e vescovi come mecenati: è quella “committenza” che ha sempre acquistato anche un valore economico, coinvolgendo istituzioni, benefattori, comunità ecclesiali, artigiani e artisti in una vera e propria armonia di intenti e di esecuzione. Questa simbiosi è particolarmente necessaria quando l’arte religiosa si orienta a diventare “sacra” e, quindi, a innestarsi nel contesto liturgico (senza voler entrare nella vexata quaestio delle classificazioni e distinzioni di tali generi artistici). Il flusso degli eventi che abbiamo prima segnalato, accompagnato dalle molteplici esperienze locali a livello di diocesi e parrocchie, era perciò idealmente destinato a sfociare nell’atto emblematico del padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia.

         Si badi bene alla designazione: non è di scena il minuscolo Stato della Città del Vaticano – che per altro è l’unico Stato al mondo ad avere due terzi del suo territorio occupato da monumenti d’arte, musei e giardini – ma la Santa Sede nella sua universalità. Per questo, si è pensato tra i tanti possibili solo a un trittico di artisti di diversa nazionalità: l’americano Lawrence Carroll, il fotografo ceco Josef Koudelka e la scuola corale “Studio Azzurro” dell’italiano Paolo Rosa. Ad essi, quasi a testimone altissimo del dialogo arte-fede, si accosterà – oseremmo dire “fuori concorso” – una sorprendente e quasi sconosciuta “trilogia” di opere dell’artista romano Tano Festa (1938-1988). Si tratta di tre dipinti di tecniche differenti: il primo basato sulla figura di Adamo nella scena della Creazione michelangiolesca; il secondo riferito alla figura del serpente nella scena del Peccato Originale; l’ultimo, infine, rimanda al solo volto di Adamo che si trasforma in una sorta di segno o di invito alla visita delle nuove opere. Non è nostro compito ora condurre un’analisi critica di tali opere. Vorremmo solo segnalarne la genesi tematica.

         Fin dagli inizi, infatti, il rischio che si voleva evitare era quello di proporre una vaga arte a soggetto spirituale che inclinasse verso la deriva di una sorta di religiosità alla New Age. Né, d’altra parte, si intendeva presentare opere destinate esplicitamente al culto e, quindi, rispondenti ai canoni specifici della liturgia cattolica. Abbiamo, così, deciso di porre nelle mani degli artisti cooptati dalla Commissione scientifica, coordinata dal prof. Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, il testo dei primi undici capitoli della Genesi. In essi si incontrano le figure, i simboli, gli eventi capitali e permanenti dell’umanità, naturalmente letti secondo l’ermeneutica della fede.

         Basti solo scorrere quelle pagine per imbattersi nella creazione, nel cosmo, nell’umanità alle sue origini, nella coppia, nell’amore («saranno una carne sola»), nel mondo animale, nella scelta libera sotto «l’albero della conoscenza del bene e del male», nel lavoro, nella violenza familiare (Caino e Abele), nella molteplicità etnica, nelle catastrofi naturali e indotte dall’uomo (il diluvio), nella “degenerazione” delle generazioni (i figli di Noè), nell’imperialismo politico-culturale di Babele e nella svolta della figura di Abramo, il giusto, il credente, il benedetto che si incammina verso un nuovo orizzonte e una nuova storia di salvezza. Si è, in tal modo, configurata quella trilogia tematica “creazione – decreazione – ri-creazione” che abbiamo affidato ai tre artisti prescelti perché riproponessero nella diversa tipologia della loro creatività e delle loro tecniche la Parola antica e sempre nuova.

         È solo un inizio e, come diceva il Don Giovanni di Byron, nella poesia, come nell’arte, «nulla è più difficile come il principio, tranne forse la fine». Eppure siamo anche convinti che questo atto di rottura rispetto a un passato di esitazioni e di perplessità (per altro non ancora cessate) meriti l’altra affermazione popolare delle Epistole di Orazio secondo cui dimidium facti qui coepit habet, cominciare è già metà dell’opera (I, 2,40). In futuro, certo, si potrà allargare l’orizzonte verso giovani artisti, tenendo, però, sempre come punti di riferimento ideali le narrazioni, i temi, i simboli, le immagini, i personaggi, le figure della tradizione religiosa cristiana, il “grande codice”, appunto, della nostra cultura. Persino Nietzsche, così fieramente avverso alla visione ebraico-cristiana, nei materiali preparatori ad Aurora, doveva riconoscere che «per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e di Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera».