Lo Sguardo della Fede nel Cinema

Conferenza presso l'Università San Damaso, Madrid, Spagna, 17 ottobre 2013

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Ravasi Lo sguardo del Cardinale Ravasi

         Era l’anno 1895 e per la prima volta i fratelli Louis-Jean e Auguste Lumière facevano scorrere alcune immagini in movimento dando origine a quella che sarebbe stata pomposamente chiamata “la settima arte”, la cinematografia. Pochi sanno, però, che alcuni mesi dopo, il 26 febbraio 1896, un operatore, Vittorio Calcina, a nome dei fratelli Lumière aveva ottenuto il permesso di varcare le soglie del Palazzo Apostolico con le sue apparecchiature destinate a filmare il Papa Leone XIII nell’atto di benedire, mentre poco tempo dopo, un collaboratore di Edison aveva potuto riprendere lo stesso vecchio pontefice mentre passeggiava nei giardini vaticani, a beneficio dei fedeli americani desiderosi di vedere il Papa “di persona”. Anzi, nel 1897, sul candido lenzuolo che allora fungeva da schermo passava la prima trascrizione in immagini mobili de La passione di Léhar, un’esperienza che nel 1900 ripeterà un più noto regista, Georges Méliès, con la sua Passion a cui aggiungerà una Jeanne d’Arc.

         Da quei momenti iniziali si snoderà un itinerario che attraverserà tutto il Novecento e tutte le nazioni del mondo e approderà alle incessanti produzioni filmiche, alle variazioni di genere introdotte dalla televisione, alle voragini abissali nel nadir delle perversioni, delle violenze, della pornografia, ma anche allo zenit dei capolavori di umanità e spiritualità, alle esaltazioni dei colossal fino alle inedite creazioni digitali attuali, alla valanga della retorica di certi film “biblici” e agiografici, al moltiplicarsi incessante dei festival e così via.

         Non è possibile né è nostro compito ora ricostruire questa storia, sia pure soffermandoci solo sulla filmografia che coinvolge la fede. Ci accontenteremo, perciò, di presentare una trilogia schematica, simile a un trittico mobile e di taglio impressionistico. Nella prima scena abbozzeremo un essenziale cenno teorico e teologico; nel secondo quadro faremo salire sulla ribalta, in una sorta di galleria di ritratti minimi, alcuni protagonisti – anche inattesi – della dialettica tra cinema e fede. Infine ci rivolgeremo ai non molti ma significativi approcci pastorali ufficiali offerti dal Magistero, mentre la Chiesa era però coinvolta vivacemente nella trionfale affermazione della “settima arte”.

         Per una teologia del cinema

         La matrice del cinema si lega sostanzialmente a due categorie fondamentali anche nella teologia, l’immagine e la parola, colte nella loro dinamicità ed efficacia. Alla giusta reticenza aniconica del Decalogo che proibisce ogni rappresentazione di «ciò che è nel cielo, sulla terra e nelle acque sotto terra» (Esodo 20,4) per liberare il Dio persona da ogni forma oggettuale idolatrica, subentra la svolta neotestamentaria. Nelle Scritture cristiane e nella Tradizione la domanda di fondo sulla rappresentabilità del sacro è subito evasa in senso favorevole, non solo perché il linguaggio teologico è di sua natura simbolico e analogico – come per altro aveva già intuito il libro della Sapienza, convinto che «dalla bellezza e magnificenza delle creature  analógôs [per analogia] si può ascendere al loro Autore» (13,5) – ma anche perché il cristianesimo ha nel suo cuore l’Incarnazione che vede nel volto umano di Gesù di Nazaret una eikôn, un’icona, un’immagine del Dio invisibile, come scriveva san Paolo ai Colossesi (1,15).

         In questa linea si illumina anche la scelta iconica della Chiesa che si opporrà con forza all’iconoclasmo nel Secondo Concilio di Nicea (787), generando e sostenendo quello straordinario patrimonio artistico che avrà il suo approdo necessario anche nella stessa cinematografia. Non è secondario, poi, il fatto che i due linguaggi, il filmico e il religioso, sono di loro natura performativi. Pur con tutte le distanze e le differenze del caso, la “sacramentalità” dell’atto liturgico ha un’analogia nell’efficacia dell’“azione” cinematografica che cerca di “attuare” nello spettatore ciò che rappresenta. Ci sono, infatti, nei film di autentica qualità artistica e spirituale alcune suggestioni irrevocabili che, dopo il congedo dallo spettacolo, continuano a vivere nell’interiorità e nella stessa esistenza dello spettatore.

         L’altra componente che intreccia fede e film è la parola. Naturalmente non intendiamo solo il sostegno che il dialogo offre alla rappresentazione, ma il racconto visivo. Ora, si comprende che la Bibbia sia divenuta un soggetto appetibile dal cinema perché è di sua natura “storia della salvezza” e quindi narrazione. È suggestivo un aforisma giudaico che afferma: «Dio ha creato gli uomini perché Egli –benedetto sia – ama i racconti». Ci sono, così, pagine bibliche che sembrano già un soggetto cinematografico, come nel caso delle 35 principali parabole di Gesù. Altri testi si presentano quasi come una sceneggiatura pronta per le riprese: si provi a leggere, ad esempio, il celebre racconto dell’adulterio di Davide e dell’assassinio di Urìa presente nei cc. 11–12 del Secondo Libro di Samuele. In questa luce si sono sviluppati alcuni capolavori come il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) ma anche una valanga di colossal di grande impegno finanziario e tecnico ma di modesta qualità religiosa.

         Pensiamo alla Più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), al Grande Pescatore di Frank Borzage (1959) o al Re dei re di Cecil de Mille (1927; remake di Nicholas Ray nel 1961) che, però, ebbe anche il merito di aver diretto un più significativo film divenuto un “classico” della cinematografia biblica, I dieci comandamenti (1956). Non si badava a spese e ad effetti, ma alla fine si otteneva un’iconografia enfatica e solo esteriormente religiosa, anzi, in alcuni casi destinata a rasentare il sadismo, come nell’esagitata Passione di Cristo (2003) di Mel Gibson (90 minuti di torture su 126 di film!). Né si deve escludere le non rare provocazioni blasfeme che attingevano la loro capacità di scandalo proprio nell’uso improprio del testo sacro (L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese del 1998, in verità meno negativa di quanto sembrasse, divenne al riguardo un emblema).

         Anche per il cinema si può, comunque, riproporre l’antica quérelle che ha tormentato critici e teologi riguardo alla definizione dell’arte sacra o dell’arte religiosa (che non sono necessariamente sinonimi). In realtà, bisognerebbe superare le classificazioni troppo rigide perché anche un film a esplicito soggetto religioso può risultare spiritualmente insignificante, e un film di tema e taglio profano può essere di altissima impronta religiosa. L’esemplificazione che introdurremo nella seconda tavola del nostro trittico ne sarà solo una minima ed essenziale esemplificazione. A livello più generale dobbiamo, quindi, riconoscere che un grande regista in ricerca autentica può generare vere e proprie meditazioni teologiche e parabole di intensa umanità e spiritualità.

         Nel 1951 nei suoi Minima moralia il filosofo Theodor W. Adorno annotava questa sconsolata esperienza personale: «Da ogni spettacolo cinematografico mi accorgo di tornare, per quanto mi sorvegli, più stupido e più cattivo». Non sappiamo a quali film assistesse per ottenere un esito così catastrofico. Certo, milioni di chilometri di pellicola e ora di immagini digitali possono confermare questa convinzione; ma c’è anche un ricco repertorio di film di eccezionale bellezza, intelligenza, interiorità e trascendenza. Che il cinema potesse spesso scadere nella superficialità vacua e fatua (anche in materia religiosa) era ribadito negli stessi anni di Adorno dal poeta e critico francese Antonin Artaud che nel suo La coquille et le clergyman (1928) dichiarava: «La pelle umana delle cose, il derma della realtà, ecco con che cosa gioca anzitutto il cinema». Eppure questa pessimistica rilevazione non impediva ad Artaud di diventare attore con una superlativa interpretazione del monaco Massieu in quel gioiello filmico – tutt’altro che fermo all’epidermide della realtà – che è stato la Passione di Giovanna d’Arco di Carl Dreyer.

 

         Una galleria di registi: Dreyer, Bresson, Bergman, Tarkovskij, Buñuel

         Ed è proprio col regista danese Carl Theodore Dreyer (1889–1968) che vorremmo aprire la piccola galleria di artisti che coi loro film si sono inoltrati sui sentieri d’altura della fede e della ricerca spirituale. «Bisogna arrivare a dare veramente al pubblico l’impressione di vedere la vita attraverso il buco della serratura dello schermo … Io non cerco altro che la vita. Il regista non conta nulla, la vita è tutto ed è essa a dominare. Quel che importa non è il dramma obiettivo delle immagini, ma il dramma obiettivo delle anime». Così egli confessava mentre girava quel capolavoro che è la Passione di Giovanna d’Arco (1927), indimenticabile per i primi piani della protagonista Renée Falconetti, ma soprattutto per il contrasto infuocato tra il rigido fanatismo religioso del tribunale e la purezza abbagliante della fede di Giovanna. In quei fotogrammi il silenzio del film muto diventava mistico anche perché i movimenti delle labbra e dei volti erano epifanie del mistero dell’incontro del fedele con il divino.

         Ma sarà molti anni dopo che, a nostro avviso, Dreyer salirà sulla vetta della sua arte ove, però, era già assisa la fede. Ci riferiamo a Ordet (1954), termine danese che indica il “Verbo”, la Parola per eccellenza, dramma teologico che ha il suo apice nella risurrezione finale che un folle di Cristo, lo studente di teologia Johannes, compie per la fede della bambina che ha perso la madre. L’angoscia è travalicata attraverso la fiducia in Dio, come già insegnava il filosofo connazionale di Dreyer, Søren Kierkegaard. L’incredulità dei più è dissolta dall’innocenza, la follia che attanaglia Johannes, che si ritiene Cristo, è trasfigurata nel rischio supremo ed estremo della fede che compie miracoli e può trasferire in mare un monte o, appunto, far rivivere un cadavere.

 

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         Al medesimo soggetto del Processo di Giovanna d’Arco (1962) si sarebbe dedicata l’altra figura che vogliamo evocare, il francese Robert Bresson (1907–1999). Noi, però, lo proponiamo per il suo indimenticabile Diario di un curato di campagna (1951), generato dal romanzo di Georges Bernanos, celebrazione del primato della grazia divina anche sul terreno dell’umanità devastata dal male fisico e morale. La cifra del romanzo e del film sono, infatti, nella battuta terminale che è simile a una spada di luce: «Tutto è grazia». Quella di Bresson non era una teodicea ma una teofania: «Il ne faut pas chercher, il faut attendre», aveva confessato il regista, convinto che il cinema fosse di sua natura “immenso” e potesse, quindi, accogliere nel suo grembo anche l’ingresso di Dio. Attendere, quindi, l’epifania; se si vuole – invertendo la tradizionale coppia verbale – prima trovare e poi cercare.

         È per questo – dirà ancora – che “mettere in scena” è un “mettere in ordine” la realtà dando ad essa il senso trascendente che custodisce nel suo intimo, anche quando è un modesto asino la cui esistenza e la cui parabola diventa implicitamente cristologica, elevandosi fino a un vero e proprio Calvario (parallelo a quello di una ragazza in Mouchette del 1967): stiamo parlando di Au hasard Balthazar (1966), un film–metafora di una bellezza struggente ed essenziale perché, come affermava Bresson, «si crea non aggiungendo ma togliendo». E ancora: «Ciò che è bello in un film, ciò che io cerco è un cammino verso l’ignoto. In un film bisogna sperimentare la scoperta dell’uomo, una rivelazione profonda del mistero … È l’interiorità che detta, e questo potrà apparire paradossale in un’arte che sembra tutta esteriorità». L’ultimo sogno, frustrato, di Bresson fu quello di girare un film sulla Genesi, ove sarebbe stato lo sguardo dell’uomo, capace di infinito, a carpire il mistero della creazione e del bene e del male.

 

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         Ora, però, vorremmo lasciare un ampio spazio a una terza figura altissima e paradossale di un regista, un teologo ateo, figlio del cappellano alla corte di Svezia, Ingmar Bergman (1918–1977). Inizieremo con la scena di apertura del suo film che tutti conosciamo, Il settimo sigillo (1956). Antonio Block, il Cavaliere è in ginocchio, con gli occhi chiusi e la fronte corrucciata che prega, mentre il sole dell'alba si affaccia su un mare nebbioso. In alto, un uccello marino dissemina voli lenti e lancia un grido inquietante. All'improvviso ecco una figura vestita di nero, col volto segnato da un pallore impressionante. «Chi sei?», le domanda il Cavaliere. «Sono la Morte... è già da molto che ti cammino a fianco», risponde quella persona misteriosa.

È una scena e sono parole che sono rimaste infisse nella memoria di tanti spettatori che hanno assistito alla partita a scacchi con cui il Cavaliere disilluso, reduce dalla crociata, cercherà di sfidare la Morte, ma che aprirà anche un orizzonte affollato di presenze: lo scudiero simile al Falstaff verdiano, l'attore, il fabbro, il mascalzone, la strega-bambina, e la coppia festosa dei giocolieri con il loro bambino, incarnazione dell'amore che vince la Morte. È, quindi, la storia umana nello spettro variegato delle sue iridescenze gelide e calorose ad essere sottoposta al giudizio, all'interno di quel «silenzio di circa mezz'ora» che irrompe all'apertura del settimo sigillo dell'Apocalisse, il libro cardine dell'ispirazione di quel film.

Fu quella la grande rivelazione per molti, credenti e agnostici, e la prima lezione di un regista che aveva appunto le vesti di un teologo agnostico. Il suo insegnamento per immagini proseguirà per anni inerpicandosi sui sentieri d'altura delle domande ultime nei cui confronti la filosofia balbetta e la stessa letteratura arranca. Il pensiero corre subito all'indimenticabile Posto delle fragole (1957), un vero e proprio itinerarium mentis in Dio e nell'uomo, nel senso della vita e della morte, del sapere e dell'ignorare, dell'amore e della solitudine. Ininterrottamente, quasi in una sorta di corpo a corpo, Bergman si è infatti confrontato con le verità estreme che la superficialità dei nostri giorni cerca di narcotizzare.

E lo faceva di film in film, ora lasciandosi sorprendere dalle teofanie di luce, ora e più spesso precipitando nello sconforto di una sconfitta perché l'Oltre e l'Altro si rivelavano troppo resistenti a una scoperta, oppure la contraffazione della fede e l'ipocrisia lo conducevano a uno scontro “notturno” e fin sarcastico con la religione (come non pensare a Fanny e Alexander del 1982?). Eppure sempre egli ritornava alle vette ventose dello spirito o alle spiagge del mare livido infinito del bene e del male, della fede e dello scetticismo, dell'amore e del vizio, della libertà e del destino, della speranza e della disperazione, dell'evidenza e dell'assurdo, della luce e della tenebra, di Dio e di Satana.

La sua era una teologia della domanda bruciante, sollecitata dalle sue radici protestanti pietiste. Egli forse non scopriva mai una risposta che fosse suggello alla sua interrogazione insonne; per noi invece – e non lo dico solo come teologo ma dando voce a tutti coloro che cercano il senso dell'esistenza con un cuore che batte – gli squarci di luce erano emozionanti, così come fecondi erano i suoi silenzi e i suoi dubbi. Vorremmo a questo proposito evocare una straordinaria trilogia bergmaniana, tutta dedicata al silenzio di Dio e alla crisi della fede, cioè Luci d'inverno, Come in uno specchio e Il silenzio.

Faremo riferimento solo al primo dei tre film, proprio perché ha al centro un ecclesiastico, uno dei non rari pastori luterani che s'affacciano nelle sceneggiature del regista di Uppsala. Il film è la storia di una crisi interiore che progressivamente ramifica la sua mano mortale nell'anima di un uomo di Chiesa che, dopo aver perso la moglie per cancro, si sente sempre più il banditore pubblico di un prodotto religioso e non più il testimone di una fede. Una sensazione che traspare dalle parole dei suoi sermoni, tant'è vero che lentamente s'allarga attorno a lui il vuoto della comunità, capace di intuire che ormai egli non è più un annunciatore ma solo un propagandista professionale.

Ma accanto a lui rimane uno dei «puri di cuore» evangelici, il sagrestano, persona semplice e luminosa. È lui a prospettare il dramma di Cristo nel Getsemani e sulla croce. Da un lato, ecco appunto l'incomprensione e l'abbandono degli amici, i discepoli che «abbandonatolo, fuggirono», come nota l'evangelista Matteo. Ma d'altro lato, ecco il momento ben più tragico, quello del silenzio del Padre che sembra ignorare il grido angosciato del Figlio, crocifisso: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». In sintesi è questo il suggerimento di quel sagrestano: «Pensi al Getsemani, signor pastore, pensi alla crocifissione... Cristo fu preso come Lei da un grande dubbio, dovette essere quella la più crudele di tutte le sofferenze, voglio dire, il silenzio di Dio».

Si potrebbe a lungo seguire la lezione teologica di Bergman intorno a questo grumo oscuro che fa parte del credere stesso, tant'è vero che percorre persino la vicenda personale del nostro padre nelle fede Abramo, mentre sale l'erta del monte Moria, accompagnato da quella voce divina mostruosa. Credere è una lotta aspra e ferrata. Bergman è uscito, come il patriarca ebreo Giacobbe, ferito al femore, zoppicante ma non ha voluto affidarsi alle promesse di quella voce trascendente e divina. Egli è, a nostro avviso, fratello di altri registi che – su strade differenti – hanno sperimentato lo stesso combattimento, registi che possiamo considerare anch'essi a loro modo “teologi”.

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Pensiamo al quarto personaggio della nostra originale galleria di registi “classici” per la loro arte e per la loro interrogazione sul tema della fede. È Andrej A. Tarkovskij (1932–1986) che lo stesso Bergman considerava “il più grande di tutti” nel rappresentare il mondo interiore con tutti i suoi misteri, un maestro che abbiamo perso troppo presto, lasciandoci in eredità solo nove film, i cui stessi titoli generano una vibrazione interiore non soltanto nei critici cinematografici: citiamo solo Andrej Rublëv (1966), Solaris (1972), Lo specchio (1974), Stalker (1979), Sacrificio (1984). L’itinerario che lo spettatore percorre in queste opere è simile a un pellegrinaggio che risale alle radici e che riesce a svelare una prodigiosa forza spirituale. Basterebbe solo riferirci a quel gioiello che è Andrej Rublëv, grandiosa parabola non solo della crisi di un artista (il massimo pittore di icone, vissuto tra il Trecento e il Quattrocento) ma dell’umanità in quanto tale.

Nel protagonista, infatti, si raggruma l’oscuro groviglio della disperazione di fronte al male accecante del mondo: si ricordi, appunto, il brutale ed emblematico accecamento degli artigiani da parte del granduca, invidioso della possibilità che il fratello potesse erigere un palazzo più bello del suo, e il pianto di Rublëv che imbratta con le mani immerse in una tinta rossastra la superficie bianca pronta per le pittura. Un accecamento, che, tra l’altro, è presentato  solo attraverso lo sguardo atterrito di un apprendista bambino che alla fine si fissa sulla mano inerte di un cadavere immerso in una palude, mentre accanto a una borraccia esce il liquido bianco della vita. Eppure quella violenza satanica contiene in sé già il germe della redenzione. Chi non ricorda la ritrascrizione del racconto della Passione in cui Cristo, raffigurato come mužik  russo, avanza reggendo la croce seguito da pie donne russe, mentre i piedi affondano nella neve?       

Alla fine irromperà, scandita col trapasso dal bianco  e nero al colore, la liberazione salvifica: Rublëv dipingerà quella stupenda icona della Trinità, ora custodita alla Galleria Tret’jakov di Mosca, ritrovando la fede e l’arte, la speranza e la vita, la fiducia e la bellezza. Come nota la slavista Simonetta Salvestroni, «il protagonista ha finalmente compreso che a essere imperfetto e colpevole non è soltanto il mondo esterno, ma lo stesso essere umano. Perciò la via per giungere alla salvezza non è tanto fuori quanto dentro di lui. Per scoprirlo gli uomini hanno bisogno di entrare in contatto con una dimensione di armonia e di bellezza». È la rivelazione della blagodat mira, la bellezza-grazia del mondo, una teofania che reca in sé il divino e l’umano e che sboccia dall’amore (non per nulla nel film viene proclamata la finale del mirabile inno paolino alla carità di 1 Corinzi 13).

 

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Chiudiamo, così, questa nostra piccola sequenza di registi che hanno attestato quanto sia fecondo e creativo il dialogo tra fede e cinema riservando uno spazio finale a un cammeo minimo dedicato a uno dei maggiori maestri del cinema, Luis Buñuel (1900–1983), “ateo per grazia di Dio” secondo una sua citatissima auto-definizione. Egli, infatti, pur da un angolo di visuale spesso critico e fin provocatorio, si è ripetutamente confrontato col tema religioso, a partire da Nazarín (1958) e da Simon del deserto (1965) film dominati da religiosi dal profilo donchisciottesco proprio per l’utopia e la radicalità che li sosteneva, ma che in tal modo rivelavano l’inaccettabilità del compromesso della purezza evangelica con la mentalità imperante. In questa linea, anche se per contrasto, brilla Viridiana (1961), l’ex-novizia che è costretta ad adeguarsi a un mondo corrotto, spegnendo l’anelito profondo di verità e di purezza che freme in lei.

L’educazione cattolica ricevuta dai Gesuiti affiorerà in modo fantasmagorico nella celebre e affascinante Via lattea (1969) che meriterebbe un’ampia analisi tematica: in essa, infatti, si ha tutta la nostalgia e l’interesse per la teologia di un regista che, però, ne scava soprattutto le contraddizioni, affilando la spada del duello teorico ed esistenziale (indimenticabile è appunto il duello a colpi di fioretto tra il gesuita e il giansenista sulla grazia e la predestinazione). Emerge, comunque, il rilievo appassionato che viene assegnato al fenomeno religioso nei cui confronti si potrebbe applicare a Buñuel il motto del filosofo David Hume: «Gli errori della filosofia sono sempre ridicoli, gli errori della religione sempre pericolosi».

Anche la costante e coerente denuncia della morale borghese – considerata come antimorale e attestata soprattutto nella potente opera Il fascino discreto della borghesia (1972) coi suoi riti stanchi, ripetitivi e desolatamente vacui – riflette un’ansia quasi puritana di etica anche se mai trasformata in parenetica. Anzi, emblematica può essere la catastrofica finale del film Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977), ultima opera di Buñuel, ove lo stravagante “Gruppo armato del Bambin Gesù” appronta e attua nel cuore di Parigi un attentato con una potente deflagrazione. Si concluderà, così, una visione aspra e quasi apocalittica del mondo contemporaneo, una visione certamente tormentata anche dalle interrogazioni religiose rimaste, però, solo come una spina nel fianco di un grande artista, nemico dell’ipocrisia.

Il filo rosso della fede e della spiritualità ha, comunque, pervaso tante altre personalità del cinema, anche apparentemente lontane come Fellini, Rossellini, Godard, Woody Allen e così via. Altre volte il filo è diventato esplicito e ha retto opere di alta qualità estetica, come ha costantemente testimoniato tutta la filmografia di Ermanno Olmi, a partire dall’acclamato Albero degli zoccoli (1977) per giungere al Villaggio di cartone (2011),  o quelle del polacco Krzysztof Kieslowski colla sua indimenticabile serie dei dieci film del Decalogo (1989) e del suo connazionale Krzysztof Zanussi. Tanti altri nomi potrebbero essere associati in una lunga lista – dalla Cavani a Zeffirelli, passando attraverso Comencini, Damiani, D’Alatri, Delannoy, Jewison, Greene, Hossein, Mazzacurati e così via – per un totale che è stato calcolato, dalle origini del cinema, in oltre 2200 pellicole di taglio religioso esplicito. Si può, quindi, condividere in qualche modo il titolo che fu assegnato tempo fa a un convegno italiano su fede e cinema, … E la Parola si fece film.

 

La Chiesa e il cinema

Giungiamo, così, all’ultima sezione della nostra trilogia, quella più direttamente ecclesiale e pastorale. La Chiesa di fronte a questo fiume ininterrotto di immagini sacre ma anche blasfeme, pacifiche ed efferate, caste e oscene quale atteggiamento ha assunto? Nell’opinione comune questa attitudine viene riassunta in una sorta di ossimoro un po’ scontato: la Chiesa ha benedetto e deprecato. In realtà, il rapporto tra Chiesa e cinema è stato più complesso e variegato e si è basato innanzitutto sull’impatto sociale che questa nuova arte operava. La si poteva, così, considerare come un efficace strumento pedagogico e catechetico. E ciò emerge nel primo documento papale che si interessava anche di cinema, l’enciclica Divini illius Magistri di Pio XI (31 dicembre 1929: l’anno prima si era svolto a Parigi il primo congresso cattolico del cinema): «Gli spettacoli cinematografici [come i libri e le audizioni radiofoniche] sono potentissimi strumenti di divulgazione, i quali possono riuscire, se diretti con sani principi, di grande utilità all’istruzione e all’educazione».

Tuttavia si segnalava subito dopo il rischio della subordinazione di tali strumenti «all’incentivo delle male passioni e all’avidità di guadagno». In questa linea di riserva si muoverà anche la prima enciclica interamente dedicata  alla settima arte, la Vigilanti cura emessa il 29 giugno 1936 sempre da Pio XI, sullo stimolo dei vescovi americani allarmati per la dilagante immoralità della produzione hollywoodiana. Ma ormai si comprendeva l’insufficienza dell’atteggiamento solo negativo e, così, le varie comunità ecclesiali si impegnavano a costituire centri cattolici cinematografici, capaci di offrire indicazioni pastorali concrete, ad aprire molteplici sale parrocchiali e relativi cineforum e, in qualche caso, anche a procedere alla produzione di film. Si configurava, così, una duplice prospettiva: da un lato, la critica sui rischi e, d’altro lato, la convinzione della eccezionale efficacia insita alla potenza e alla fascinazione di tale mezzo di comunicazione.

Significativi, al riguardo, sono i due discorsi “sul film ideale” che Pio XII tenne nel 1955 ove si abbozzava un’analisi culturale e pastorale del cinema, puntando l’attenzione anche sulla stessa tecnica in continuo progresso (era il tempo in cui si era passati al sonoro e ai primi effetti speciali), capace di condurre lo spettatore verso orizzonti da lui non sempre perlustrati, facendogli vivere in modo partecipe splendori e miserie, ideali e degenerazioni, speranze e delitti dell’umanità. Ma contemporaneamente non si perdeva mai di vista il registro critico ed è per questo che Pio XII affrontava anche questioni complesse come la liceità della rappresentazione del male, la dimensione psicologica della visione, la capacità e l’ambiguità narrativa riguardo ai valori etici, familiari e sociali. Tutto questo approdò nell’enciclica Miranda prorsus, sempre di Pio XII (1957) dedicata più ampiamente al fenomeno di una comunicazione che si allargava ben oltre i confini tradizionali della stampa.

Anche i Pontefici successivi – Giovanni XXIII con la lettera Nostra Patris del 1961e con l’istituzione della Filmoteca Vaticana nel 1959 e Paolo VI coi suoi messaggi per la Giornata Mondiale delle comunicazioni sociali – promossa a partire dal 1967 – procederanno lungo la stessa duplice traiettoria di sostegno e di attenzione critica. Il Magistero ecclesiale generale lascerà un’altra sua impronta col decreto conciliare Inter mirifica (1963) che, pur attestandosi sul panorama generale della comunicazione sociale, riserverà uno spazio particolare al cinema. Tuttavia il travaglio, la novità e le riserve nei confronti di un soggetto così mobile e variegato saranno testimoniate da un curioso dato statistico: questo decreto fu in assoluto il documento conciliare più “contestato” e nella votazione finale incassò ben 503 voti contrari su poco più di 2000 votanti.

Infine Giovanni Paolo II, un Papa dal forte impatto “visivo”, che non aveva esitato a recarsi nel 1987 anche a Hollywood, ha lasciato un’ampia messe di interventi tematici, soprattutto in occasione dei messaggi per le varie Giornate Mondiali delle comunicazioni sociali e in molteplici discorsi destinati agli operatori nell’ambito cinematografico. Suo è l’accento sul cinema come «veicolo di cultura e proposta di valori», un tema sviluppato nel messaggio per la XXIX Giornata Mondiale del 1995: «Il cinema – scriveva il Pontefice – permette di abbattere le distanze e acquista quella dignità, propria della cultura, quel modo specifico dell’essere dell’uomo che crea tra le persone, dentro ciascuna comunità, un insieme di legami, determinando il carattere interumano e sociale dell’esistenza umana».

Questo legame stretto tra cinema e cultura sarà evocato indirettamente anche da Benedetto XVI nell’incontro con gli artisti (tra i quali vari registi, attori, scenografi) davanti al grandioso fondale del “Giudizio” di Michelangelo nella Cappella Sistina il 21 novembre 2009: l’accento era posto sulla “sororità” tra arte e fede, tra bellezza e spiritualità, come vie alla trascendenza sia pure su percorsi differenti, un messaggio di consonanza collocato sulla scia della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II (1999).

Ormai la consapevolezza che la settima arte sia uno specchio del nostro tempo con le sue grandezze e i suoi abissi, ma sia anche una strada per entrare nella modernità ad annunciare il Vangelo, è saldamente radicata nelle comunità ecclesiali di ogni continente. Già Kafka, conversando con l’amico Janouch, era convinto che il film potesse diventare una nuova modalità per fare poesia e noi potremmo applicare questa convinzione al rapporto tra cinema ed evangelizzazione. Diceva appunto Kafka, che ovviamente ignorava il digitale: «Le corde della lira dei poeti moderni saranno interminabili pellicole di celluloide». Interminabili sequenze cinematografiche potrebbero essere voce e immagine dell’annuncio evangelico.