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Ravasi


Arte e Fede

in occasione della Laurea Hon. Causa a Córdoba, il testo della Lectio Magistralis del Card. Gianfranco Ravasi 

Università Cattolica di Córdoba, 28 novembre 2014

          È con profonda emozione che prendo la parola in questo Auditorio Diego de Torres per esprimere la mia viva gratitudine al Honorable Consejo Academico che ha voluto cooptarmi in questa università, rendendomi così partecipe della sua vita, della sua ricerca, della sua attività culturale.

          Il mio intervento si colloca all’interno della secolare e gloriosa tradizione di dialogo interculturale che fiorì nella vicina “Manzana Jesuítica” ove si elaborò l’incontro con la civiltà degli indigeni guaraní, soprattutto attraverso il percorso dell’arte, dalla musica all’architettura, alla scultura.

          Tra i nomi famosi dei gesuiti che dettero vita a questo confronto voglio ora evocare due figure emblematiche, legate a due diverse discipline artistiche. Mi riferisco innanzitutto all’architetto Giovanni Andrea Bianchi. Egli proveniva dalla mia stessa terra d’origine, essendo nato a Campione d’Italia, che attualmente è un’enclave italiana in territorio svizzero, e che si trova nella stessa provincia di Como ove io sono nato e ove trascorro ogni anno le mie soste dall’impegno al servizio della S. Sede. Egli visse e operò così a lungo a Buenos Aires, fino alla sua morte nel 1740, da trasformare il suo nome in Andrés Blanqui, e la sua opera a Córdoba è attestata dalla splendida cattedrale.

          A lui associo una delle figure alte della musica classica, il gesuita toscano Domenico Zipoli che in questa città visse la parte più significativa della sua breve esistenza. Le sue composizioni, soprattutto le partiture per organo, sono spesso dei veri e propri gioielli della musica barocca: penso, in particolare, alle scintillanti sonate per la liturgia eucaristica e a quella vetta mirabile che è la sua Pastorale, ricca di cromatismi.

          In quest’atmosfera in cui s’intrecciano arte e fede vorrei appunto proporre ora una riflessione molto sintetica su questo binomio che ha dominato per secoli la storia della cultura occidentale. Arte e fede, in ultima analisi, sono sorelle perché –  come affermava il celebre pittore Paul Klee – «l’arte non rappresenta il visibile ma l’Invisibile che è nel visibile». E lo scrittore tedesco Hermann Hesse nella sua opera Klein e Wagner non esitava ad affermare: «Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio».

          A esaltare questo connubio, in sede teologica, è la via pulchritudinis nella quale, attraverso la bellezza, è possibile risalire a Dio, come ha attestato nel secolo scorso la ricerca presente in Gloria, il monumentale capolavoro di Hans Urs von Balthasar. Al di là di breve parentesi iconoclaste, presto archiviate, la Chiesa ha sempre considerato l’immagine come veicolo per annunziare il mistero. Il simbolo, pur essendo radicato alla concretezza storica e cosmica, può dire l’Altro, andare verso l’Oltre trascendente. Uno dei più appassionati difensori dell’arte cristiana contro l’iconoclasmo, san Giovanni Damasceno, nell’VIII secolo suggeriva agli uomini di Chiesa di condurre i non credenti all’interno di una chiesa con le sue icone e le sue opere d’arte perché quella era la via più incisiva per parlare di Dio. Negli Statuti d’arte dei pittori senesi del Trecento si leggeva: «Noi con la nostra arte manifestiamo agli uomini che non sanno leggere le cose miracolose operate per virtù della fede».

          È suggestiva questa consapevolezza di essere annunziatori di un messaggio divino proprio attraverso l’opera artistica, che ovviamente allora espletava anche una funzione catechetica diretta (la famosa Biblia pauperum) in un contesto di analfabetismo letterario. Ma ai nostri giorni si può concepire ugualmente un’identica missione dell’arte a due livelli. Innanzitutto al livello cosiddetto “kerygmatico”, cioè di un primo annuncio della fede a chi non crede: quanti visitatori agnostici o in ricerca, attraverso il fulgore delle immagini, l’emozione delle musiche (si pensi alla conversione del poeta Paul Claudel in Notre-Dame durante i Vespri cantati…), la solennità dei riti e delle parole, possono ritrovare il senso ultimo dell’essere e della vita, incontrare il mistero e Dio. C’è, poi, naturalmente il livello catechetico-liturgico. In un edificio sacro di alta qualità artistica il credente è aiutato a vivere un’esperienza spirituale ben più genuina di quanto accada in un contesto sguaiato e ferito dalla bruttezza.

          Oggi l’homo televisivus o telematicus è fruitore sistematico più di immagini e segni che non di parole e lo è spesso in modo esasperato e degenerato. La stessa pastorale dovrebbe, perciò, favorire una purificazione dell’occhio. In altri termini, la riconquista della bellezza non è solo la via per la riscoperta della fede, della purezza di spirito e dei grandi valori religiosi, ma è anche la strada per ritrovare la ricchezza culturale, la memoria storica di un popolo e la sua genuina e profonda identità. Il grande archeologo dell’Oriente cristiano Guillaume De Jerphanion aveva intitolato suggestivamente i suoi tre fondamentali volumi sulle chiese rupestri della Cappadocia con la formula Voix des monuments. Ebbene, questa “voce dei monumenti” cristiani deve ritornare a risuonare anche nella cultura contemporanea. Il magistero spirituale dell’arte ignora e supera le frontiere del tempo e dello spazio, della mentalità e delle astrazioni teoriche, incarna costantemente nella bellezza il mistero divino.

          Non bisogna, infatti, mai dimenticare che alla radice della nostra cultura occidentale è in azione la Bibbia col suo patrimonio di simboli, segni, narrazioni e figure. Come aveva dimostrato il critico canadese Northrop Frye nel suo noto saggio Il grande codice, dedicato al rapporto tra Bibbia e letteratura, «le S. Scritture sono l’universo entro cui la letteratura e l’arte occidentale hanno operato fino al XVIII sec. e stanno ancora in larga misura operando». Per secoli, infatti, la Bibbia è stata “l’immenso lessico” – come affermava il citato Paul Claudel – cioè il grande repertorio iconografico, ideologico, letterario e musicale a cui ha attinto la cultura.

E se il critico tedesco Erich Auerbach, nella sua nota opera Mimesis, era giunto a riconoscere nella Bibbia e nell’Odissea i due modelli cruciali per tutta la cultura dell’Occidente, persino un pensatore ostile alla tradizione ebraico-cristiana come Friedrich Nietzsche nel suo saggio Aurora era costretto ad ammettere che «per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca e tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera». La Parola biblica, coi suoi simboli, con la sua incandescenza, la sua poesia è stata il grande arsenale iconografico, ideale, letterario ed etico dell’Occidente, appunto il “grande codice” di riferimento della nostra cultura, “l’alfabeto colorato della speranza in cui hanno intinto i loro pennelli i pittori di tutti i secoli», come affermava il pittore Marc Chagall.

          In ambito religioso il ritorno alla conoscenza e all’amore per l’arte è, quindi, un percorso di spiritualità e di cultura, è persino un viatico per l’etica e la dignità della persona, se è vero quanto dichiarava nel Filebo Platone: egli, infatti, era convinto che «la potenza del Bene è rifugiata nella natura del Bello». Si deve, perciò, ricomporre il divorzio che nel secolo scorso si è consumato tra arte e fede. L’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, si è consacrata a esercizi stilistici sempre più elaborati e provocatori, rinchiudendosi nel cerchio dell’autoreferenzialità e delle mode ed esigenze di mercato. La Chiesa si è rivolta al freddo ricalco dei moduli, stili e generi delle epoche precedenti o si è adattata alla bassa qualità dei nuovi quartieri urbani, elaborando modeste e persino brutte architetture sacre.

          Di fronte alle lezioni dei grandi artisti e credenti del passato, come Blanqui e Zipoli, è necessario ritessere questo legame tra arte e fede. È ciò che abbiamo voluto fare portando per la prima volta la S. Sede con un suo padiglione a quella tribuna internazionale che è la Biennale d’Arte di Venezia. Infatti, anche se abusata nell’uso ripetuto fino a diventare uno stereotipo, rimane sempre vera l’affermazione apparentemente paradossale di Dostoevskij: «L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui».