Educazione e comunicazione

EDUCAZIONE E COMUNICAZIONE

Come crescere nella fede in Università

 Lectio Magistralis di S.E. il Cardinale Gianfranco Ravasi

in occasione del Dies Academicus

e del conferimento della laurea h.c. in Sacra Teologia

Pontificia Università Lateranense, 9 novembre 2012

 

 

         Sono figure distanti più di due millenni, sono tra loro diversissime, eppure le loro voci coincidono su un punto. Da un lato, Platone che nella Repubblica dichiara: «L’impronta iniziale che uno riceve dall’educazione (paideia) segna anche tutta la sua condotta successiva» (IV, 425b). D’altro lato, nell’autobiografico I miei ricordi (1867) Massimo D’Azeglio afferma che «tutti siamo d’una stoffa nella quale la prima piega non scompare mai più». Questa rilevazione, per certi versi scontata, assegna un rilievo oggettivo alla prima formazione, quell’incipit pedagogico che si consuma nella famiglia, nella comunità ecclesiale, nella scuola, in particolare nell’Università. Consapevole di questo primato, la cultura greca classica ha riservato uno spazio capitale alla paideia, come è stato dimostrato dal famoso saggio titolato appunto Paideia che Werner Jaeger pubblicò nel 1934 (tr. italiana 1936).


Né apocalittici radicali né integrati totali

         Nella classicità si confrontavano essenzialmente due modelli. Quello di Isocrate (436-338 a.C.) puntava soprattutto sull’eloquenza della comunicazione, quindi sul metodo, sulla retorica così che il discepolo diventasse maestro nel comunicare sapientemente e reggere la vita familiare e politica. Platone (427-347 a.C.), soprattutto nel libro VII della Repubblica, sosteneva maggiormente l’importanza del contenuto e quindi della definizione di un corpus educativo generale, di una fondazione e formazione integrale, di una “filosofia” nel senso etimologico del termine, capace di individuare e di discernere il bene e il male, il vero e il falso. Questa divaricazione di modelli può e dev’essere superata, ed è, comunque, stata costantemente sotto l’attenzione della riflessione pedagogica.

         Educazione e comunicazione si devono, quindi, intrecciare, altrimenti si assiste a una degenerazione di cui siamo spesso testimoni ai nostri giorni ove alla bulimia delle tecniche “informatiche” corrisponde un’anoressia di contenuti formativi. È quello che già faceva notare nei suoi Saggi Montaigne: «De vrai, le soin e la dépense de nos pères ne visent qu’à nous meubler la tête de science; du jugement et de la vertu, peu de nouvelles» (I,25), ossia la preoccupazione principale e l’investimento degli educatori mira solo ad arredare la testa di conoscenze; si ignorano tranquillamente la capacità di giudizio e la virtù. Per questo, concludeva il filosofo, è necessaria «plutôt la tête bien faite que bien pleine», modellare il pensare più che colmare il cervello di dati e di modi espressivi. È il «travailler à bien penser», l’impegnarsi a pensare bene, con rigore e sostanza, che Pascal nei suoi Pensieri considerava come «il principio della morale» (n. 347 ed. Brunschvicg).

         Il contrappunto armonico tra contenuto e comunicazione, la loro coesistenza e l’incrocio necessario non è solo postulato dall’ormai abusato (fino allo stereotipo) assioma di McLuhan secondo il quale (anche) il mezzo è (il) messaggio per cui, come egli ironizzava in uno dei saggi della Sposa meccanica (1951), «i modelli di eloquenza non sono più oggi i classici ma le agenzie pubblicitarie» che riescono a plasmare talmente il messaggio che «la moderna Cappuccetto Rosso non avrebbe nulla in contrario a lasciarsi oggi mangiare dal lupo». Ma si è andati anche oltre. Infatti il segno più rilevante del mutamento in corso riguardo agli equilibri tra contenuto e comunicazione – mutamento che il sociologo americano John Perry Barlow ha comparato alla scoperta del fuoco – è nel fatto che ora la comunicazione non è più un medium simile a una protesi che aumenta la funzionalità dei nostri sensi permettendoci di vedere o di sentire più lontano, ma è divenuto un “ambiente” totale, globale, collettivo, un’atmosfera che non si può non respirare, neanche da parte di chi si illude snobisticamente di sottrarvisi.

         Si delinea, così, nell’odierna comunicazione non più un’“estensione di noi stessi”, come intendeva McLuhan (The Extension of Man era il sottotitolo del suo saggio Understanding Media del 1964) ma il trapasso a una nuova “condizione umana”, a un inedito modello antropologico i cui tratti sono comandati da questa realtà onnicomprensiva. Anche Galileo col telescopio credeva solo di “estendere” le capacità visive, ma alla fine creò una rivoluzione non solo cosmologica ma anche epistemologica e antropologica per la quale l’uomo non era più il centro dell’universo (la “rivoluzione copernicana”). Siamo, quindi, immersi in un “creato” differente rispetto al “creato” primordiale. In esso ci sono già molti nuovi cittadini a titolo pieno, quelli che a partire dal 2001 con Mark Prensky sono chiamati digital natives, rispetto a quelli della precedente generazione che al massimo possono aspirare ad essere “migranti digitali”, incapaci – come accade appunto agli immigrati – di perdere l’antico accento. Rimane, comunque, sempre più difficile adottare il rigetto apocalittico, ma bisogna anche essere sensibili e criticamente sorvegliati così da non diventare integrati totali, per usare l’ormai famosa antitesi del testo Apocalittici ed integrati di Umberto Eco (1964).

         Agli apocalittici, ad esempio, appartiene un po’ Karl Popper con la sua stentorea battaglia contro lo strapotere televisivo, i cui asserti sono per altro adattabili e aggiornabili anche all’impero informatico-virtuale: spirito critico in sonno, democrazia trasformata in telecrazia, perversione del senso etico, estetico e veritativo. Collocati come siamo in simili coordinate culturali, l’educatore deve educere e sceverare grano e zizzania, senza però cadere nella tentazione dello strappo radicale apocalittico appunto, fondamentalista e isolazionista. “Insegnare” è offrire dei “segni” indicatori di percorsi da imboccare e di sentieri da evitare. È ciò che vorremmo ora fare in modo molto semplificato ed emblematico attraverso una trilogia di componenti negative, prima di lasciare spazio a un convinto appello a non sottrarsi, bensì ad entrare in quell’orizzonte, tenendo ben stretto il nucleo duro del messaggio genuino della fede cristiana ma modulandolo sulle nuove lunghezze d’onda, che si sviluppano attorno alle parabole, sì, ma mediatiche. Iniziamo, dunque, con tre segnali di pericolo. Anche san Paolo, che fu l’artefice di una nuova coniugazione del Credo cristiano secondo i canoni della comunicazione greco-romana, non esitava a criticare aspramente «quei molti che fanno mercato della parola di Dio» adulterandola (2Cor 2,17).


Tre vizi della comunicazione

Una prima riserva riguarda la moltiplicazione sconfinata dei dati offerti. Essa può indurre a un relativismo agnostico, a una sorta di anarchia intellettuale e morale, a una flessione dello spirito critico e della capacità di vaglio selettivo. Entrano, così, in crisi le grandi agenzie di comunicazione del passato come la Chiesa, la scuola e lo Stato. Risultano sconvolte le gerarchie dei valori, si disperdono le costellazioni delle verità ridotte a un giuoco di opinioni variabili nell’immenso paniere delle informazioni. Si attua in modo inatteso quel principio che il filosofo Thomas Hobbes aveva formulato nel suo celebre Leviathan (1651): «Auctoritas non veritas facit legem», è l’autorità potente e dominante che determina le idee, il pensiero, le scelte, il comportamento, e non la verità in sé, oggettiva. La nuova autorità è appunto quella dell’opinione pubblica prevalente, che ottiene più spazio e ha più efficacia all’interno di quella massa enorme di dati offerti dalla comunicazione informatica.

         Una seconda nota critica punta alla degenerazione sottesa a una componente di per sé positiva (d’altronde spesso i vizi sono virtù degenerate, come accade ad esempio alla nutrizione che può essere degradata a peccato di gola o alla sessualità deviata nella lussuria). Sotto l’apparente “democratizzazione” della comunicazione, sotto la deregulation imposta dalla globalizzazione informatica, che sembrerebbe essere principio di pluralismo, sotto la stessa molteplicità contenutistica precedentemente segnalata, si cela in realtà un’operazione di omologazione e di controllo. Non per nulla le gestioni delle reti sono sempre più affidate alle mani di magnati o di “mega-corporations” che riescono sottilmente e sapientemente a orientare, a sagomare, a plasmare a proprio uso (e ad uso del loro mercato e dei loro interessi) contenuti e dati creando, quindi, nuovi modelli di comportamento e di pensiero. Si assiste, così, a quella che è stata chiamata un po’ rudemente “una lobotomia sociale” che asporta alcuni valori consolidati per sostituirne altri spesso artificiosi e alternativi. Curiosamente già lo storico francese Alexis de Tocqueville nella sua opera La democrazia in America (1835-1840) aveva previsto per il futuro della società americana un sistema nel quale «il cittadino esce un momento dalla dipendenza per eleggere il padrone e subito vi rientra». Profilo che, per certi versi, s’adatta all’attuale società informatica.

         Un’ultima osservazione critica riguarda l’accelerazione e la moltiplicazione dei contatti ma anche la loro riduzione alla “virtualità”. Si piomba, così, in una comunicazione “fredda” e solitaria che esplode in forme di esasperazione e di perversione. Si ha, da un lato, l’intimità svenduta della “chat line” o, per stare nell’ambito televisivo, quella di programmi del genere Il grande fratello; si ha la violazione della coscienza soggettiva, dell’interiorità, della sfera personale. D’altro lato, si ottiene come risultato una più forte solitudine, un’incomprensione di fondo, una serie di equivoci, una fragilità nella propria identità, una perdita di dignità. E’ stato osservato dal citato Barlow che non appena i computer si sono moltiplicati e le antenne paraboliche sono fiorite sui tetti delle case, la gente si è chiusa nelle case e ha abbassato le serrande. Paradossalmente, l’effetto dello spostarsi verso la realtà virtuale e verso mondi mediatici è stato quello della separazione gli uni dagli altri e della morte del dialogo vivo e diretto nel “villaggio”.

 

Il realismo della critica e l’ottimismo dell’impegno

         Di fronte a questo orizzonte così problematico, forte può essere la tentazione dello scoraggiamento e dell’atteggiamento rassegnato o dimissionario, nella convinzione dell’inarrestabilità di un simile processo destinato a creare un nuovo standard umano. Non è raro il caso di chi si rinchiude nel suo piccolo mondo antico, accontentandosi di seguire le regole del passato, deprecando le degenerazioni dell’era presente. A livello ecclesiale non mancano fenomeni di rigetto e di ricorso ai tradizionali canali di comunicazione, collaudati per una società agricola o paleoindustriale o proto-urbana. Tuttavia, il filosofo e sociologo francese Edgar Morin – pur osservando che i nuovi mezzi sorti per distinguere la realtà dalla manipolazione e la verità dalla menzogna, come la fotografia, il cinema e la televisione, sono stati usati in molti casi proprio per favorire l’illusione, la manipolazione e la menzogna – ha dimostrato con molti altri studiosi di questi fenomeni come la nuova comunicazione possa, in ultima analisi, generare una realtà più ricca e complessa e persino più feconda  anche umanamente.

         Il realismo della conoscenza e della critica non giustifica, allora, il pessimismo dell’impegno. E questo vale maggiormente per il credente e per il pastore. Le sfide sono forti, rischiose e pericolose ma proprio per questo esigono fiducia e coraggio, nella consapevolezza che il cuore della fede è nella Rivelazione, ossia nella comunicazione divina che spezza il silenzio ineffabile della trascendenza e si apre all’umanità. È un dialogo che – nel cristianesimo – vede in azione il Figlio stesso di Dio, dopo la voce dei profeti e dei sapienti di Israele: «Dio nessuno mai l’ha visto: proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Una comunicazione che prosegue oralmente attraverso gli apostoli e che diventa scritta fin dai primi secoli.

         È significativo notare che è proprio il magistero della Chiesa nella sua espressione più alta ad avere costantemente invitato la comunità cristiana a non adottare un isolazionismo protettivo ma a entrare in questo che è «il primo areopago moderno», come aveva fatto Paolo ad Atene (At 17,22-32). È noto che questa frase appartiene all’enciclica Redemptoris missio del 1990. In essa Giovanni Paolo II riconosceva che ormai è in corso una “nuova cultura”: essa nasce, «prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi messaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici». Il Papa, anzi, era convinto che questa cultura «sta unificando l’umanità rendendola - come si suol dire – “un villaggio globale”. I mezzi di comunicazione sociale hanno raggiunto una tale importanza da essere per molti il principale strumento informativo e formativo, di guida e di ispirazione per i comportamenti individuali, familiari, sociali. Le nuove generazioni soprattutto crescono in modo condizionato da essi… È, allora, necessario integrare il messaggio cristiano in questa “nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna» (n. 37).

         Inoltre se risaliamo allo stesso Concilio Vaticano II, di cui celebriamo il cinquantenario del suo avvio, ritroviamo già l’appello a riconoscere che gli strumenti della comunicazione sociale «contribuiscono mirabilmente a sollevare e ad arricchire lo spirito e a diffondere e a consolidare il Regno di Dio» (Inter mirifica n. 2). Paolo VI nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975, segnalando le esitazioni che avevano causato una «rottura tra Vangelo e cultura» (n. 20), un iato dai risvolti molteplici non solo comunicativi ma anche artistici, musicali, sociali e culturali in senso generale, non esitava ad ammonire che «la Chiesa si sentirebbe colpevole di fronte al Signore se non adoperasse questi potenti mezzi» (n. 45). È sorprendente notare come il linguaggio tecnico dei computer si sia curiosamente avvicinato a quello teologico mutuandone alcuni termini come, ad esempio, “icona”, save, convert, justify, vocaboli che appartengono alla stessa Sacra Scrittura, apparentemente così remota cronologicamente e ideologicamente.

         È in questa linea che si è giunti al punto di parlare persino – in analogia alla “cybercultura” (Pierre Lévy) – di una “cyberteologia” della quale si hanno già vere e proprie analisi sistematiche, come quella proposta nel 2006 dall’americana Susan George (Religion and Technology in the 21st Century) il cui sottotitolo è emblematico, Faith in the e-World. La fede si insedia, quindi, nel mondo cyber (prefisso disceso dal termine “cibernetica”, la cui matrice greca evoca un “governo” della realtà, dell’azione e del pensiero) con una serie di contenuti significativi, anche se non sempre impeccabili. Cyberteologia è, però, anche la riflessione teologica e pastorale sulla stessa comunicazione nei tempi di internet e sulle modalità con cui innestarvi l’annunzio evangelico. Alla base, quindi, c’è la convinzione che la rete sia un “dominio” dotato di grandi potenzialità spirituali: è in questa luce che il gesuita Antonio Spadaro, attuale direttore della Civiltà Cattolica, ha creato un sito specifico intitolato appunto www.cyberteologia.it, pubblicando anche il saggio specifico Cyberteologia (2012). Non sono pochi gli ecclesiastici che esercitano sistematicamente in rete una particolare (ma non esclusiva) forma del loro ministero ed è significativo che in molte Università Pontificie o cattoliche – come accade nella Pontificia Università Lateranense – siano in attività facoltà o istituti dedicati esplicitamente alla formazione di operatori ecclesiali nell’ambito della comunicazione sociale.

 

Tre paradigmi comunicativi biblici

Essendo la nostra essenzialmente una prospettiva teologico-pastorale, è interessante fondare sul testo di riferimento della fede cristiana, cioè sulle Scritture, l’impegno di comunicare secondo criteri di attualizzazione. La struttura radicale della fede biblica è, infatti, affidata alla comunicazione. L’incipit stesso della creazione è basato su una parola divina: «Dio disse: Sia la Luce! E la luce fu» (Gn 1,3). La stessa storia della salvezza è scandita dalla comunicazione che Dio fa di se stesso presentandosi con un “Io” personale e un Verbo dinamico di essenza e di azione, “Sono” (Es 3,14). Le dieci parole del Sinai sono l’emblema di una continua rivelazione della volontà e del progetto divino: «Dio vi parlò in mezzo al fuoco: voce di parole (qôl debarîm) voi ascoltavate, immagine alcuna non vedevate, solo una voce (qôl)» (Dt 4,12). La Torah, come suggerisce la radice jrh che ne è la matrice, suppone un “insegnamento” e quindi una comunicazione, che è educazione di un popolo, tant’è vero che uno dei titoli più comuni applicati dalla tradizione giudaica a Mosè è morenû, «il nostro maestro».

Lo stesso Nuovo Testamento si apre idealmente con una Parola incarnata e vivente: «In principio era il Verbo… E il Verbo divenne carne» (Gv 1,14). Come vedremo, Cristo ha comunicato attraverso la sua parola soprattutto parabolica, e con le sue opere, i miracoli, che erano altrettante parabole in azione. La missione della Chiesa ruota attorno al ministero della parola, la cui efficacia è scandita dalle opere e dal sacramento: «Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli…, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20). La necessità cogente dell’annunzio brilla nel “sillogismo” paolino: «Come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!» (Rm 10,14-15). Non per nulla si ricorrerà per la predicazione cristiana e per la sua cristallizzazione letteraria al termine “evangelizzare/evangelo”. Un vocabolo squisitamente comunicativo. E nei Sinottici Cristo è definito per 34 volte ho didáskalos, il Maestro per eccellenza, che però «parla come il Padre mi ha insegnato» (Gv 8,28).

Analizzare la comunicazione così come è delineata e attuata nella Bibbia risulta, dunque, quasi impossibile perché vorrebbe dire ricostruirne e inseguirne l’intera trama, nella consapevolezza poi che la rivelazione, l’insegnamento e la formazione si svolgono non solo sul registro verbale (orale o scritto) ma anche su quello effettivo e dinamico, essendo la comunicazione un atto simbolico. Lo insegna già la stessa accezione di dabar che è semanticamente sia “parola” sia “atto”. Vorremmo, allora, indicare in forma meramente esemplificativa e tematica soltanto alcuni modelli di comunicazione biblica. Ne elencheremo una trilogia.

Scegliamo innanzitutto il paradigma “tradizionale”, caratteristico di ogni trasmissione di sapere perché l’umanità non è mai in stato di nudità o di tabula rasa quando procede nel conoscere, ma – per usare la famosa metafora di Bernardo di Chartres o di Giovanni di Salisbury – si è sempre nani su spalle di giganti, ed è per questo che si riesce a vedere più lontano di loro. La tradizione è capitale per la fede d’Israele, come ribadisce formalmente il Salmo 78 (vv. 3-8) per il quale «ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli». Si ha, dunque, una catena generazionale di comunicazione della fede, decisiva per una religione storica, i cui eventi sono una presenza salvifica che diventa “memoriale” efficace nel futuro. È ciò che si evince dal racconto pasquale di Esodo 12 (vv. 14.17.26-27) e dalla successiva haggadah giudaica. Lo stesso approccio vale per gli eventi esodici e sinaitici in genere ove il monito a non dimenticare gli atti divini (“dimenticare” è il verbo dell’apostasia così come “ricordare” è quello della fede) si trasforma in tradizione, ossia in trasmissione: «li insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli» (Dt 4,9; si veda Dt 6,20-21 ove è quasi sceneggiata questa educazione alla fede da parte del genitore).

Questo modello si allargherà nella letteratura sapienziale a una formazione di indole più generale attraverso lo schema padre/maestro e figlio /discepolo: «Ascolta, figlio mio, l’istruzione di tuo padre e non disprezzare l’insegnamento di tua madre… Anch’io sono stato un figlio per mio padre, tenero e caro agli occhi di mia madre» (Pr 1,8; 4,3). Una trasmissione che concerne soprattutto i valori umani fondamentali come la saggezza e l’intelligenza (Pr 4,7) e il loro uso corretto (3,5.7), la concretezza dell’agire, in particolare nella gestione familiare (31,10-31) e nella politica (Sap 6,1-21), la formazione scientifica (Sap 7,17-20; Sir 38,1-15), tecnica e intellettuale (Sir 38,24-34; 39,1-11) e così via. Il modulo “tradizionale” si presenta anche nell’annuncio della fede cristiana, come è evidente in Paolo, il quale parte proprio dall’esperienza personale.

È il passo suggestivo della Prima Lettera ai Corinzi nel quale egli rievoca la sua formazione catechetica attorno al Credo cristiano delle origini, allorché egli dichiara di innestarsi nella catena della tradizione: «Vi proclamo il Vangelo che vi ho annunciato… mantenendolo come ve l’ho annunciato… Vi ho infatti trasmesso quello che anch’io ho ricevuto…» e segue il contenuto della professione di fede, sostanza anche del kérygma: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto; è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve…» (1Cor 15,1-5). Questa parádosis ha come segno distintivo la fedeltà alla parathéke, al “deposito” della fede che è appunto l’oggetto stesso della comunicazione generazionale (1Tim 6,20; 2Tim 1,12.14). Non è rara, infatti, nell’Apostolo la polemica contro la degenerazione a cui può essere sottoposta nella sua trasmissione l’autenticità del kérygma, come accadeva tra i Galati, alcuni dei quali «turbano e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo» e Paolo giunge sino al paradosso : «Se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anátema!» (Gal 1,7-8).

Lo stesso Apostolo rimane, comunque, l’artefice di un altro modello fondamentale, quello dell’attualizzazione. Esso è già in azione nell’Antico testamento allorché la Parola di Dio adotta i canoni espressivi che si adattano alle differenti coordinate storiche nelle quali è coinvolto Israele con l’evolversi della sua vicenda storica. Assistiamo, così, all’acquisizione progressiva di componenti della civiltà nomadica (per la Pasqua), di quella fenicio-cananea (la simbolica nuziale), delle culture mesopotamiche (la cosmologia), del patrimonio egizio (esodo, “monoteismo”, sapienza), della letteratura hittita (l’alleanza secondo i trattati vassallatici), della civiltà persiana (l’oltrevita nella risurrezione) ed ellenistica (l’escatologia). Naturalmente non si tratta di assunzioni automatiche ma di stimoli o temi che vengono rielaborati alla luce dello jahivismo, della trascendenza e della storia della salvezza.

Alla radice dell’attualizzazione nel formulare la propria fede si ha sia la storicità della religione biblica sia l’Incarnazione. È per questo che il processo continua nel Nuovo Testamento ove la cultura giudaica palestinese e della Diaspora è il contesto vitale di Gesù e della prima comunità; ma ad essa succede il confronto con la civiltà greco-romana che offre molteplici contributi di indole teorica ed etica. Paolo è, al riguardo, decisivo sia a livello linguistico sia a livello ermeneutico. Egli, infatti, dà il via al primo sistematico piano di inculturazione del cristianesimo, ricorrendo a una comunicazione e a un’attività missionaria pronta a usufruire delle risorse offerte dalla cultura “laica” del tempo, dalle tecniche oratorie per giungere fino all’uso delle strade, che l’impero romano aveva stabilito come una vera e propria rete non solo commerciale e politica ma anche “informatica”, e per approdare agli ambiti di confronto insiti alla pólis, con la sua parresía, cioè la libera diffusione del pensiero.

Come affermava Giovanni Paolo II rivolgendosi nel 1979 alla Pontificia Commissione Biblica, «la Parola divina si è fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture, che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile alle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni storiche». Anzi, nel 1980, rivolgendosi all’episcopato del Kenya, il Papa puntualizzava un profilo dell’inculturazione la quale «è realmente un riflesso dell’Incarnazione del Verbo, quando una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce dalla sua propria tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione, di pensiero». L’inculturazione, che è l’aspetto più evidente dell’attualizzazione del messaggio cristiano nella molteplicità degli orizzonti culturali, deve ora confrontarsi col fenomeno dell’interculturalità, il modello dinamico e anche dialettico che si sta sostituendo a quello statico e conflittuale della pura e semplice multiculturalità.

Nella nostra esemplificazione introduciamo un terzo paradigma che potremmo definire simbolico. Esso ha una sua declinazione molto originale nella comunicazione di Cristo attraverso le parabole, ma è un canone frequente anche in altri ambiti biblici, soprattutto in quello profetico. Questo approccio ha un particolare valore nella cultura contemporanea che, rispetto alla parola, privilegia l’immagine e la narrazione. L’efficacia straordinaria di Gesù comunicatore e maestro è nettamente attestata e riconosciuta negli stessi Vangeli. Egli, infatti, «insegnava come uno che ha autorità e non come i loro scribi» (Mt 7,29), al punto tale che le guardie inviate per arrestarlo ritornano dalle autorità giudaiche confessando: «Mai un uomo ha parlato così!» (Gv 7, 44-46). La sua parola non può essere incatenata, è performativa e testimoniale: «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» (Gv 13,13-14).

Non per nulla Giovanni adotterà, come si diceva, la categoria del Lógos per definirlo, così che lo stesso esistere di Cristo diventasse simbolo espressivo, sulla scia di quanto era avvenuto nei profeti che, come Osea col suo matrimonio, Geremia col suo celibato, Ezechiele con la sua corporeità, si trasformavano in segno, parola, parabola vivente. Siamo, così, di fronte a un annuncio globale che in Cristo ha come complemento l’opera delle sue mani, i miracoli, che sono dýnamis, cioè atto rivelatore potente, e seméion, segno di salvezza e rivelazione del mistero trascendente e profondo di chi li compie. Dicevamo che la modalità prediletta dal Gesù storico è la parabola la quale è, in ultima analisi, un simbolo narrato. La vasta gamma di questo genere adottato da Cristo (da 35 a 72 e oltre secondo le diverse classificazioni) rivela l’anima stessa dell’Incarnazione, proprio nella linea della struttura stessa del simbolo, che comprende un’interazione tra la realtà esperienziale e la trascendenza: la creatura si apre a un Oltre e a un Altro che la eccedono.

Per questo la parola di Gesù è incisiva, attingendo all’orizzonte contingente sociale, animale, vegetale dell’uditorio, ma aprendolo e quasi torcendolo verso l’eterno e l’infinito del Regno di Dio. Come ha suggerito un esegeta e vescovo ora scomparso, Vittorio Fusco, «le parabole vanno viste come la frontiera mobile su cui l’evangelo, senza mai cessare di essere dono inaudito, messaggio che viene da Dio e non dagli uomini, si rivela però veramente rivolto agli uomini, capace di farsi carico dei loro interrogativi e di assumere tutto quanto ancora resta in loro di capacità di camminare verso la verità». L’efficacia umana e divina del predicatore Gesù, che privilegiava la narrazione parabolica (invito implicito a ritornare alle risorse di questo genere nella comunicazione ecclesiale attuale), non elide però la libertà umana. Non per nulla è proprio attorno all’uso delle parabole come sconcertante via di incomprensione e di rifiuto che si sviluppa un’interessante analisi redazionale evangelica basata sulla missione profetica di Isaia applicata a quella di Gesù (si vedano Mt 13,10-17; Mc 4,10-12; Lc 8,9-10; cf. Is 6,9-10).

Naturalmente la comunicazione di Gesù si allarga in una raggiera di altri generi come il lóghion, il discorso, la parenesi, la controversia. La sua è una pedagogia dialogica che rivela un’armonica di moduli, forme espressive, tonalità sempre fermamente ancorate ai temi fondanti dell’annuncio. Un annuncio che ha il suo suggello nell’evento pasquale il quale assegna una nuova configurazione e gradazione alle parole dette da Cristo, tant’è vero che per la loro piena comprensione diventa necessaria – come suggerisce Giovanni – la “memoria” rigenerativa: «Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù» (Gv 2,22). Entra, così, in azione lo Spirito santo “ermeneuta”: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto… Lo Spirito della verità vi guiderà alla verità tutta intera» (Gv 14,26; 16,13).

La comunicazione della fede si rivela, allora, come un connubio tra mistero divino e tecnica umana. Il profeta, l’uomo della Parola per eccellenza, riflette tutta la sua capacità comunicativa secondo la sua identità personale, lo stile, i contesti storici, ma ha sempre ferma la convinzione che il suo è un messaggio che lo supera perché è “oracolo del Signore” per cui egli parla “in nome di” (pro-) Dio. Anche san Paolo è consapevole che, pur con tutta l’attrezzatura oratoria, letteraria, espressiva adottata, alla fine la predicazione è una «testimonianza di Cristo» (1Cor 1,6), ossia un martýrion che Cristo dà di se stesso (genitivo soggettivo) attraverso la voce del ministro della Parola. Come ricordano spesso gli Atti degli apostoli, è la Parola stessa che «si diffonde» disseminandosi per terreni sempre nuovi (6,7; 12,24; 19,20). Cristo è, dunque, al tempo stesso il soggetto e l’oggetto della comunicazione della fede.

 

Tre percorsi di comunicazione

Per concludere ritorniamo a quella categoria della cultura greca da cui siamo partiti, la paideia. Essa cerca di tenere intrecciati tra loro messaggio e comunicazione ed è da questa unione che nasce l’educazione della persona. Per questo, paideia è in pratica la cultura, l’humanitas latina. Ebbene, se il concetto, come si è visto, fa parte dell’annunzio cristiano – che è un comunicare in modo limpido, attualizzato, incisivo il “deposito” della fede così da far fluire insieme parádosis e parathéke – il termine in senso stretto è raro nel Nuovo Testamento. Ricorre, infatti, solo sei volte. Ad assorbire quattro occorrenze è la Lettera agli Ebrei in un unico brano parenetico (12,4-11) che si sviluppa attorno a una citazione del libro dei Proverbi (3,11-12). Il tema è un tópos della letteratura sapienziale ed esalta la funzione catartica della correzione divina, attraverso un processo pedagogico condotto dalla figura del padre il cui esito non è la punizione fine a se stessa bensì «un frutto di pace e di giustizia», perché «Dio lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci partecipi della sua santità».

In questa stessa traiettoria educativa e correttiva si muove anche il quinto testo nel quale occhieggia il termine paideia. Nel codice o tavola dei doveri domestici del c. 6 della Lettera agli Efesini si allega una nota di umanità nell’educazione dei figli: «voi, padri, non esasperate i vostri figli, ma fateli crescere nella paideia [che è, quindi, educazione etica e disciplina] e nell’insegnamento del Signore» (6,4). Proprio nella linea della nouthesía, l’“insegnamento”, la formazione della mente e quindi delle scelte del cristiano si colloca l’ultima e la più rilevante occorrenza neotestamentaria della paideia. Siamo, infatti, all’interno di uno dei passi fondamentali per una teologia della S. Scrittura (genitivo oggettivo), cioè per una definizione della qualità e della funzione della Bibbia. Qui vediamo illuminarsi la triade che ha retto il nostro discorso: fede, comunicazione, educazione. Cerchiamo di analizzare l’asserto paolino:

       «Tutta la Scrittura è theópneustos [ispirata da Dio].

         È pure utile

                 - per la didaskalía [l’insegnamento]

                 - per l’elegmós [la persuasione, la convinzione]

                 - per l’epanórthosis [il raddrizzare, la correzione]

                 - per la paideia nella giustizia» (2Tim 3,16).

 

Lo spettro delle applicazioni intellettuali, esistenziali e morali della Parola di Dio è ben calibrato secondo l’arco intero dell’educazione e formazione dell’uomo e del credente perfetto. L’aspetto informativo (la didaskalía) che è alla radice della fides quae si incrocia con la persuasione (elegmós) che genera l’adesione alla Parola (l’elegmós), in pratica la fides qua. Ne deriva l’impegno morale nel suo profilo negativo di lotta al peccato e al male, abbandonando le deviazioni, cioè le perversioni nelle scelte etiche (l’epanórthosis). Ma l’apice è appunto la paideia, categoria positiva che genera l’uomo giusto, l’autentico credente. Per raggiungere questa meta che la Scrittura «ispirata da Dio» mostra e invita a dimostrare nella testimonianza di vita è necessaria una comunicazione incisiva e decisiva.

È ciò che l’Apostolo consiglia al discepolo Timoteo, quasi come in un testamento, ed è quello che lui stesso ha compiuto durante la sua predicazione e missione. Questo impegno ricade anche su di noi che ci troviamo inseriti in un nuovo quadro socio-culturale. Tentiamo, a suggello della nostra riflessione essenziale, di suggerire alcune piste di attenzione per rendere l’evangelizzazione più trasparente ed efficace così che la Parola di Dio “si dissemini”, come era accaduto nell’opera kerygmatica della Chiesa degli Atti degli apostoli. Indicheremo solo tre percorsi.

Il primo è quello dell’identità da custodire, senza cadute in facili concordismi o sincretismi, depotenziando la fede cristiana del suo carattere di “scandalo” (1Cor 1,23), di paradosso, persino di apparente “inattualità” proprio a causa della sua validità permanente e oggettiva che non s’adatta a mode, anche a costo di creare contrasto e rigetto, come insegna l’esperienza paolina dell’Areopago (At 17,32). A questo proposito è rilevante proprio l’esperienza di quel grande comunicatore che è stato l’Apostolo, consapevole a più riprese delle deviazioni dottrinali che si ramificavano nelle sue comunità «turbando e sovvertendo» (Gal 1,7), «provocando divisioni e ostacoli contro l’insegnamento appreso» (Rm 16,17), «incantando gli stolti» cristiani della Galazia (Gal 3,1).

Il fascino della stravaganza e dell’eccesso attirava già allora, tant’è vero che san Paolo polemizza con alcune comunità cristiane nelle quali «ci si circonda di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (2Tim 4,3-4). Anzi, la forza “performativa” della comunicazione – soprattutto nei confronti delle persone più indifese – è rappresentata senza reticenze nel suo versante negativo all’interno della stessa lettera indirizzata da san Paolo al collaboratore Timoteo: «Vi sono alcuni che entrano nelle case e circuiscono certe donnette cariche di peccati e in balìa di passioni di ogni genere, sempre pronte a imparare, ma che non riescono mai a giungere alla conoscenza della verità» (3,6-7).

In quel contesto di comunicazione viziata, già allora non si esitava ad adottare la pura e semplice falsificazione a livello di massa: nella comunità cristiana di Tessalonica circolavano persino – dice l’Apostolo – «alcune lettere fatte passare come nostre», tali da «confondere la mente e allarmare» (2Ts 2,2), tant’è vero che Paolo si vedrà costretto ad apporre ai suoi scritti – dettati, com’era prassi, a uno scriba – una specie di autenticazione: «Il saluto è di mia mano, di Paolo. Questo è il segno autografo di ogni mia lettera; io scrivo così» (2Ts 3,17); «vedete con che grossi caratteri vi scrivo di mia mano» (Gal 6,11). L’“adulterazione” del messaggio secondo forme ingannevoli era una vera e propria piaga che attecchiva in varie Chiese delle origini (2Cor 4,2). Il monito è, perciò, costante: «Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri… Nessuno vi inganni con parole vuote» (Col 2,8; Ef 5,6). La comunicazione malata, le incomprensioni e le degenerazioni dell’autentica dottrina sono, quindi, un dato permanente e fin scontato non solo nel confronto con l’esterno, ma anche all’interno stesso della Chiesa.

Una seconda osservazione riguarda, in contrappunto, la capacità di comunicare quel messaggio autentico e identitario della fede cristiana. Nel suo primo dialogo col filosofo Jean Guitton, Giovanni Battista Montini annotava: «Bisogna essere antichi e moderni, parlare secondo la tradizione ma anche conformemente alla nostra sensibilità. Cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?». Ecco, allora, l’esigenza di possedere una conoscenza rigorosa delle tecniche comunicative, abbandonando l’approssimazione, l’improvvisazione e la faciloneria. La nuova comunicazione si è ormai dotata di una sua grammatica, di una sintassi e di una stilistica che non possono essere ignorate. Si delinea, così, la necessità di un linguaggio che, senza perdere la sua matrice, si modelli secondo nuovi percorsi retorici e oratori.

È proprio questo il “punctum dolens” nell’attuale comunicazione esterna ecclesiale. Anzi, lo è già a livello intra-ecclesiale. Basti pensare allo scarto talora eccessivo tra il linguaggio dei documenti pastorali e la comprensione dei fedeli. Oppure si pensi alla spinosa questione dell’omelia, che un famoso critico e osservatore attento dei fenomeni culturali come Carlo Bo definiva “tormento dei fedeli” e non certo nel  senso della capacità di inquietare le coscienze… Certo, sappiamo quanto sia arduo coinvolgere il pubblico eterogeneo delle assemblee liturgiche domenicali,  e per di più abituato ai ritmi scattanti dell’odierna comunicazione. Dopo tutto anche san Paolo, parlando troppo a lungo, riuscì ad addormentare e a far cadere dal terzo piano il ragazzo Eutico a Troade (At 20,7-12), mentre secoli dopo, nel Settecento, il celebre autore dei Viaggi di Gulliver, Jonathan Swift, che fu anche parroco anglicano, scriveva un saggio ironico sul come far addormentare i fedeli durante un sermone pomeridiano.

La questione del linguaggio è capitale soprattutto nell’“areopago”  della nuova comunicazione. Qui il divario tra la parola e lo stile ecclesiale – talora segnato da retorica, enfasi, stile mellifluo, tonalità ieratica – e quelli adottati comunemente nel linguaggio contemporaneo segna uno stacco o uno scarto (o un gap) così marcato da trasformarsi in una vera e propria frattura che decade in incomprensione. Il linguaggio è una delle sfide fondamentali sulla quale la Chiesa deve ancora molto operare, studiare ed esercitarsi, senza lasciarsi tentare dall’autarchia intellettuale o dal vittimismo denunciando solo e sempre le incomprensioni altrui. «Spesso siamo così “interni” che parliamo la lingua degli “interni”, al punto tale che coloro che sono esterni alla Chiesa non capiscono quasi nulla di quello di cui stiamo parlando» (Crispian Hollis).

Un primo segno del rispetto e dell’amore per l’altro – e la vera comunicazione è un atto di comunione e, quindi, di carità – è la capacità di trasparenza, evitando la prevaricazione dell’oscurità esoterica e oracolare che è arroganza e disprezzo nei confronti dell’altro. Già Quintiliano (I sec. d. C.), il maestro della retorica classica, nel suo De institutione oratoria, limpidamente osservava: «Prima est eloquentiae virtus perspicuitas», la prima dote dell’eloquenza è la chiarezza, la comprensibilità. È, questo, uno dei limiti più frequenti dell’annunzio cristiano nell’“areopago” della società moderna: il ricorso all’“ecclesialese”, l’appello al gergo, l’incapacità di esprimersi in modo semplice, evitando tecnicismi (kérygma, escatologia, kénosis, koinonía, diaconia, mistagogia, pericope, pneumatico…) ma anche enfasi o rigidità stilistiche ne sono la testimonianza più evidente.

La chiarezza e la semplicità sono paradossalmente più impegnative del linguaggio sofisticato ed esoterico. Anche se questo filosofo non ha sempre praticato tale principio, è vero quello che affermava Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus: «Tutto quello che si può dire, si può dire chiaramente». Già secoli prima, nelle sue Prediche volgari, san Bernardino da Siena ammoniva che «colui che parla chiaro, ha chiaro l’animo suo».  Sappiamo, poi, che la comunicazione informatica ha prodotto un’estenuazione dell’uso delle subordinate: il minimalismo del Twitter coi suoi 140 caratteri ne è una prova evidente. Il pensiero certamente si semplifica, ma diventa più incisivo. Certo, non si dovrà mai abbandonare l’approfondimento ove impera appunto la subordinata, ossia l’articolazione del pensiero, ma bisognerà anche essere in grado di comunicare il kerygma con la stessa essenzialità di Cristo che nel suo primo intervento pubblico è ricorso a una sorta di tweet essenziale: «Il tempo è compiuto, il regno di Dio si è fatto vicino. Convertitevi e credete al Vangelo», in greco 8 parole in tutto, senza gli articoli e le congiunzioni che comunque porterebbero a 15 termini per un totale di 78 caratteri (Mc 1,15)!

Ecco, allora la dote dell’incisività che esorcizza la noiosità verbosa, antico vizio dell’eloquenza sacra che Voltaire con malizia comparava alla spada di Carlo Magno: è lunga e piatta. Montesquieu, il famoso filosofo e letterato francese del ’700, nelle sue Lettere persiane accusava: «Quel che manca loro in profondità, gli oratori lo compensano in lunghezza». Ma già tra i detti e gli apoftegmi dei padri del deserto, che sono un modello di comunicazione icastica, ce n’è uno sferzante di abbà Sisoes dedicato ai teologi della scuola di Alessandria d’Egitto: «Se Dio avesse incaricato i teologi di scrivere il Decalogo, invece di dieci comandamenti, ne avremmo avuti mille!». Ed è curioso notare che Cristo riduce i 613 precetti elaborati dalla tradizione rabbinica a due soltanto, che sono poi il solo comando dell’amore (Mt 22,34-40). Come si è visto, Gesù è un modello di incisività nella comunicazione attraverso il suo ricorso all’efficacia dei simboli delle sue parabole. È così che si attua, in senso positivo e non alienante l’opera di “sedurre” l’ascoltatore, ossia di secum ducere, di condurlo con noi stessi su percorsi nuovi e più alti.

Un terzo e ultimo percorso comunicativo è quello dell’ascolto attento, sorgente primaria per un “dialogo” che sia veramente tale, cioè l’incontro (diá-) di due logoi, di due concezioni serie anche se differenti e fin divergenti. Non per nulla nella Bibbia l’“ascoltare” è il verbo della fede e significa confronto, con Dio, con se stessi e col prossimo (vedi il celebre Shema‘ di Dt 6,4ss). Ma c’è di più. L’ascoltare dovrebbe precedere il parlare. La preparazione, l’apprendistato, l’esercizio sono le condizioni prerequisite per ogni attività professionale. Così, prima di accedere agli schermi televisivi, prima di elaborare un articolo, prima di allestire un sito o comporre un messaggio, è necessario avere un’attrezzatura culturale, è importante capire i meccanismi della comunicazione, è indispensabile “ascoltare” nel senso pieno del termine. Questa legge deve valere, nella comunicazione, anche in un altro senso. Dietrich Bonhoeffer affermava che «l’inizio dell’amore per il prossimo sta nell’imparare ad ascoltare le sue ragioni». Purtroppo, nei dibattiti televisivi o in quelli pubblici e persino nel Twitter e nel blog che di loro natura presuppongono un dialogo in rete, questa norma è del tutto disattesa e dà origine solo a confusione, a sovrapposizione di voci, a violenze verbali.

La polemica può essere anche il sale del confronto, ma guai – soprattutto per l’uomo di Chiesa o il cristiano – ad eccedere. Il noto romanziere cattolico scozzese Bruce Marshall, morto nel 1979, aveva coniato queste tre formule per il dialogo tra persone caratterizzate da diversità culturali o religiose:

«Ascoltare quello che dice l’altro.

Ascoltare tutto quello che dice l’altro.

Ascoltare prima quello che dice l’altro».

L’umile fierezza delle proprie convinzioni non deve mai trasformarsi in prevaricazione ma in confronto sereno, nel rispetto e nell’ascolto delle altrui convinzioni per poterle poi eventualmente discutere. La paura nei confronti dei new media, infatti, può generare atteggiamenti antitetici di timidezza e reticenza oppure di arroganza e permalosità. Entrambe sono negazione del vero ascolto dell’altro.


«Si fece silenzio…»

Questo ascolto vero suppone anche una componente che ai nostri giorni è sempre più rara, fino a risultare persino controcorrente. Così, dopo aver trattato tanto di parole, di informazione, di comunicazione, faremmo entrare in scena l’antipodo, cioè il silenzio. In uno dei suoi Shorts il poeta inglese Wystan H. Auden, morto nel 1973, confessava: «Bisognosi anzitutto / di silenzio e di calore, / produciamo / freddo e chiasso brutali». Nietzsche osservava che «è difficile vivere con gli uomini perché è assai difficile farli stare in silenzio». Il vaniloquio filtrato dai cellulari, il flusso incessante delle notizie, il “chattare” senza tregua e senza contenuti veri, ma spesso solo in una marea di fatuità e vacuità, il fiume limaccioso delle volgarità o quello fangoso delle falsità fanno venire talvolta il desiderio che, per questa società della comunicazione di massa superinflazionata, si compia quanto si annuncia nel libro dell’Apocalisse: «Si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora» (8,1). È come se nell’etere risuonasse un poderoso: “Zitti!”, così da bloccare ogni sproloquio per almeno mezz’ora.                       

La parola autentica e incisiva, in verità, nasce dal silenzio, ossia dalla riflessione e dall’interiorità, e per il fedele dalla preghiera e dalla meditazione. In mezzo al brusio incessante della comunicazione informatica, alla chiacchiera e all’immaginario televisivo e giornalistico, al rumore assordante della pubblicità, il cristiano (ma non solo) deve sempre saper ritagliare uno spazio di silenzio “bianco” che sia – come accade a questo colore che è la sintesi dello spettro cromatico – la somma di parole profonde, e che non è mero silenzio “nero”, cioè assenza di suono. Il Dio dell’Horeb si svela a Elia non nelle folgori, nel vento tempestoso e nel terremoto bensì in una qol demamah daqqah, in «una voce di silenzio sottile» (1Re 19, 12). Anche la sapienza greca pitagorica ammoniva che «il sapiente non rompe il silenzio se non per dire qualcosa di più importante del silenzio». È solo per questa via che sboccia la parola sapiente e sensata. Solo così si compie la scelta di campo sottesa a un famoso detto rabbinico: «Lo stupido dice quello che sa; il sapiente sa quello che dice».