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Dopo il trauma è il tempo della rinascita

Intervista al Card. Ravasi

Paolo Rodari @ La Repubblica 19 aprile 2020

Lo raggiungiamo al telefono, una mattina di lavoro nel suo “ministero” vaticano dedicato alla cultura. 77 anni, il cardinale Gianfranco Ravasi, biblista fra i più autorevoli al mondo, erudita sconfinato, legge con Repubblica questi giorni difficili a causa del «trauma» del coronavirus.

Parla di trauma?

«Lo è. Come ricorda la radice indoeuropea della parola, “tro-”, che significa storcere, perforare, trauma è una ferita inflitta in profondità. Così ne parla anche il Nuovo Testamento. Non so in quale altro modo definire questi giorni».

Come uscirne?

«Ho letto in questi giorni un saggio di un professore di New York, David McLain Carr. S’intitola “Holy resilience”, la santa resilienza come chiave di lettura di tutta la Bibbia. Può avere un significato anche per noi adesso».

Dobbiamo essere resilienti?

«Prima dobbiamo capire cosa è resilienza. Viene dal latino resilire, che significa rimbalzare. È un termine spesso usato per indicare un metallo che assorbe un colpo senza rompersi. “Speranza e resilienza”, hanno scritto Dan Short e Consuelo Casula, mettendo in pagina quel processo cognitivo ed emotivo che rielabora perdita e traumi superandoli. Ricostruendo un impianto personale emerge una interiorità grande che non si sospettava di avere. Ecco forse è questa la chiave utile per noi».

La storia può aiutare?

«Dopo il peccato adamico c’è Abramo, dopo il diluvio c’è una nuova umanità, la Pasqua ebraica celebra la liberazione dalla schiavitù egiziana, dopo la crocifissione di Cristo c’è la risurrezione e la missione degli apostoli che dicono che la morte non è l’estuario definitivo. Scrisse Mario Luzi, “Il bulbo della speranza / che ora è occultato sotto il suolo / ingombro di macerie / non muoia, / in attesa di fiorire alla prima primavera”. Questi segni di rinascita sono possibilità generate dal trauma».

Cosa dice ancora questo trauma?

«Che la scienza ha mostrato i suoi limiti. Ha compreso che non basta a sé stessa, che non riesce a spiegare tutto. Ci sono anche altre forme di conoscenza, ad esempio la poesia, la musica, l’amore e anche la fede».

Poi?

«La nostra scala dei valori è precipitata. Il denaro, il successo, il potere non bastano più, si comprende bene come i valori siano altri».

C’è valore nello stare chiusi in casa?

«Lo stare in casa può essere una fatica. So di donne che proprio in questi giorni subiscono da parte dei loro compagni violenze terribili, esacerbate proprio dall’essere costrette entro le mura domestiche. Ma nello stesso tempo in questa reclusione c’è anche del positivo perché si può riscoprire il gusto delle relazioni non solo virtuali. Per troppo tempo siamo usciti al mattino per rientrare alla sera e terminare le nostre giornate davanti alla tv. Questi giorni ci offrono qualcosa di diverso».

Cosa ancora?

«Ci accorgiamo solo oggi di come eravamo caduti nella superficialità. Quante cose inutili: oggi invece possiamo essere diversi, e trovare addirittura il coraggio di parlare ai nostri bambini della morte. La morte ora è davanti a noi. Prima l’unica esperienza di morte che facevamo era quella che ci colpiva quando mancavano i nostri cari».

I credenti cosa possono imparare?

«Direi che stanno imparando che la fede è anche protesta, alzare la domanda a Dio che fu di Giobbe e di Cristo: dove sei? Perché mi hai abbandonato?»

La letteratura può venirci in soccorso?

«Ci sono quattro romanzi per me decisivi in questi giorni. Anzitutto “La peste” di Camus. Un non credente s’interroga sulle credenze umane e anche sul silenzio di Dio. Si può mai credere in un Dio che lascia morire un bambino? Poi i “Promessi Sposi” di Manzoni, e insieme “Lettere da una città dolente” di Axel Munthe, uno svedese che nel 1884 venne a Napoli per curare le vittime del colera. E, infine, “L’amore ai tempi del colera” di Gabriel García Márquez. Dovrebbero essere letture imprescindibili oggi».

Cosa la colpisce ancora di quanto sta accadendo?

«Io sono vecchio, eppure non so se avrei il coraggio di andare volontario a curare i malati. Alla fine andrei, lo so, ma di per sé non ne avrei il coraggio. Per questo la mia ammirazione per i medici e gli infermieri che hanno perso la vita in questi giorni è enorme. Queste persone hanno adempiuto la legge dell’amore esternata da Gesù nell’ultima cena: non c’è amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici. Da loro ci viene una grande lezione, la lezione di una resilienza che si trasforma. Diceva Pascal che l’uomo supera infinitamente l’uomo».

La politica come le sembra?

«Abbiamo bisogno di una politica che superi l’egoismo. L’uomo, del resto, lavora, agisce, ma giunto alla fine della sua giornata è ancora incompleto. Ha bisogno della relazione, di qualcuno che gli stia di fronte occhi negli occhi. La politica deve amare l’umanità e non fare come Mafalda di Quino che diceva: “Io amo l’umanità, è il vicino di casa che detesto”».

Cosa ancora non va?

«Ci sono tre grandi sofferenze oggi: la corruzione che si vede anche nel fatto che in questi giorni benestante alcuni benestanti hanno chiesto comunque 600 euro al governo. Voglio dirlo: questo è peccato. Poi peccato grave resta l’evasione fiscale. Paolo nella Lettera ai romani chiede di pagare le tasse a Cesare che, è giusto ricordarlo, a quel tempo era Nerone. Infine c’è la sofferenza data dalle diseguaglianze sociali che emergono sempre più. Forse la crisi della politica si risolverebbe permettendo alle donne di accedere ai posti di potere. Le donne hanno generato. Prima di uccidere, di distruggere, ci pensano due volte. Hanno caratteristiche che noi uomini non abbiamo».

Accanto alla politica cosa serve?

«È importane che ritorni la religione, il ruolo della religione nella società. C’è il Papa a cui guardare che fa vedere la vulnerabilità e chiede sguardi alti, che trascendono. E chiede la morte dei fondamentalismi e degli egoismi. E poi la cultura, che è muta. Pensi che faccio fatica a trovare per il Cortile dei gentili voci di atei che abbiano una visione alternativa e che non sia legata alla malattia della superficialità. Almeno fino all’avvento del coronavirus era tutto grigio, vivevamo come nella nebbia. Un tempo non era così. Nell’800 avevamo il pessimismo di Leopardi insieme a Dostoevskij che entrava nelle profondità del male elevandosi poi verso il bene. E Manzoni. E ancora la grande poesia. Nel ’900 c’erano Ungaretti, Mario Luzi, Turoldo, Montale con la sua nostalgia del credere, eguagliata in un certo senso da una frase di García Márquez quando disse: “Sfortunatamente Dio non ha nessuno spazio nella mia vita, ma spero, se esiste, di avere io spazio nella sua”».

Se dovesse suggerire come iniziare queste giornate cosa direbbe?

«Proverei a iniziarle con la Bibbia: lo sa che per esattamente 365 volte ricorre l’espressione “non temere”? Per un anno si potrebbe ogni mattina fare propria una di queste espressioni, come una sorta di “buon giorno” da parte di Dio».