CHI NON LAVORA, NON MANGI!

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Quando eravamo da voi vi  abbiamo sempre imposto questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi! (2 Tessalonicesi  3,10)

 

         Parole sferzanti queste che san Paolo rivolge ai cristiani di Tessalonica, la capitale della Macedonia greca, basate su una “regola” che probabilmente attingeva a un proverbio popolare. Questa frase fu persino assunta dalla costituzione dell’Unione Sovietica (senza ovviamente il riferimento all’Apostolo). Essa è incastonata all’interno di una Lettera, la Seconda, che è indirizzata a una Chiesa piuttosto turbolenta: è uno scritto di 823 parole greche, steso in tono un po’ ridondante e ripetitivo, tant’è vero che non pochi studiosi la riferiscono a un discepolo di Paolo.

         In verità, in finale si legge questo post-scriptum: «Questo saluto è di mia mano, di Paolo. Ciò serve come segno di autenticazione per ogni mia lettera: io scrivo così» (3,17). Bisogna anche dire che, all’interno del testo, si protesta perché nella comunità tessalonicese circolavano false lettere paoline dense di oracoli minacciosi, elaborate da persone fanatiche ed esaltate che mettevano in agitazione l’intera Chiesa, quasi come se fosse in arrivo una bufera.

         Infatti – e questa situazione già affiorava nella Prima Lettera – molti cristiani di quella città si erano convinti dell’imminenza della parousía, ossia del ritorno del Cristo glorioso a suggello della storia, e si erano così abbandonati a forme quasi isteriche di religiosità sul modello di quanto ogni tanto ancor oggi si verifica in certe sette o gruppi apocalittici. Molti avevano abbandonato la loro professione, conducendo una vita eccitata e indisciplinata, obbediente solo ai canoni di un misticismo illusorio. La condanna dell’Apostolo è netta, piomba come una staffilata e la frase da noi citata ne è una prova evidente.

         Continua Paolo: «Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono un’esistenza disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità» (3, 11-12). È solo nell’impegno quotidiano, sereno e operoso, che ci si prepara all’incontro con Cristo, i cui tempi e date sono comunque ignoti. È solo nella fedeltà alla storia presente che si può accogliere il Regno futuro.

         L’Apostolo, però, nel resto della Lettera non esita a controbattere alle curiosità un po’ pettegole sulla fine del mondo, disegnando un grandioso affresco della storia. In esso si erge, terribile, l’Anticristo, il “Figlio della perdizione”, che conduce all’apostasia e provoca al male. Ma c’è un “ostacolo” (in greco il vocabolo usato ora è al maschile, ora al neutro) che si leva come una barriera o come un lottatore contro l’irrompere del Maligno. È probabilmente il progetto divino sulla storia che lascia, sì, spazio alla zizzania, alla perversa libertà umana e a Satana, ma che li controlla con la sua signoria suprema. L’approdo finale è chiaro: «il Signore Gesù annienterà il Maligno col soffio della sua bocca» (2,8).