DALLA POLVERE UN BISBIGLIO

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Prostrata, parlerai da terra, dalla polvere

saliranno fioche le tue parole:

sembrerà di un fantasma la tua voce dalla terra

e dalla polvere la tua parola risuonerà come un bisbiglio. (Isaia 29,4)

È quasi come fosse una ripresa televisiva: una città devastata dalla guerra, il lastricato delle strade striato di sangue, un sudario di morte e di silenzio che si stende sulle case diroccate. L’obiettivo procede verso un parco ormai inaridito e ridotto a una distesa polverosa. Qualcosa sembra muoversi: sì, è un corpo ferito, che alza un po’ il capo, sollevando la gola dalla polvere. Da quelle labbra secche escono alcune parole fioche. È inutile accostare l’orecchio, ormai esse si fanno sempre più flebili fino a perdersi in un bisbiglio.

Veramente potente e impressionante nella sua tragicità è la scena che il profeta Isaia ha saputo dipingere con poche pennellate poetiche affidate a sole 13 parole ebraiche. Essa descrive un’esperienza drammatica universale e costante: è quella delle vittime della storia, cadute non solo sui campi di battaglia, ma anche nella fame e nella sete dei paesi poveri e nel segreto di case misere e solitarie, ove ci sono persone dimenticate da tutti. Come scriveva il poeta Giorgio Caproni, «un uomo solo / coi suoi torti e le sue ragioni / solo / a parlare / ai morti».

Nel chiuso di una stanza, mentre fuori impazza la frenesia delle vacanze, ci sono tante persone sole, abbandonate, che hanno soltanto i loro morti come interlocutori. Ebbene, la frase del libro di Isaia – che personifica la città santa di Gerusalemme devastata (il brano è assegnato dagli studiosi a un autore successivo al celebre profeta, autore che fu testimone del crollo del 586 a. C. e dell’esilio babilonese) e che noi abbiamo voluto collocare nel nostro ideale florilegio di passi biblici mirabili – riassume in sé l’eterno lamento delle vittime, degli sconfitti della storia, calpestati dai potenti e ignorati dai benestanti.

Un sapiente biblico, il Qohelet/Ecclesiate, era costretto a fare la stessa rilevazione sul terreno delle vicende umane: «Io mi sono messo a considerare tutte le violenze perpetrate sotto il sole: ecco le lacrime delle vittime da nessuno consolate, da nessuno consolate contro il forte potere dei violenti» (4,1). È questa anche l’amara e definitiva considerazione del profeta? No, e i versetti successivi ne sono la prova, perché sopra quella distesa di rovine e di morte si china il Signore della storia, curvandosi sino a lambire la terra per riportare giustizia e schiacciarvi gli oppressori.

Sono parole dure che nascono dalla desolazione degli oppressi, ma anche dalla loro unica speranza: esse vogliono ricordare che il Dio biblico è un essere giusto, custode della moralità, non indifferente al grido degli ultimi, anche se «i suoi pensieri non sono i nostri pensieri e le sue vie non sono le nostre vie», come ribadirà altrove lo stesso profeta (55,8). Ecco, allora, la finale della scena che abbiamo evocato: «Sarà come polvere fine la folla degli oppressori, come pula dispersa la massa dei tiranni e tu, d’improvviso, sarai visitata dal Signore degli eserciti» (29, 5-6).