IL MURO DELL'ODIO ABBATTUTO

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Cristo è la nostra pace: egli dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’odio, per mezzo della sua carne. (Efesini 2,14)


 

         Se cerchiamo la Lettera agli Efesini nella più antica copia a noi giunta dell’epistolario paolino, il Papiro 46 (databile attorno al 200), o nei due codici di pergamena più importanti, il cosiddetto “Vaticano” (dalla Biblioteca Vaticana ove è custodito) o il “Sinaitico” (dal luogo d’origine, il monastero di S. Caterina al Sinai), si scopre che il titolo della Lettera è privo del riferimento a Efeso: «Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volere di Dio, ai santi e ai credenti in Cristo Gesù» (1,1). Alcuni studiosi pensano, allora, che questa sia stata inizialmente una lettera “circolare” dell’Apostolo, destinata alle Chiese dell’Asia Minore, tra le quali primeggiava Efeso che, appunto, poi apparirà sistematicamente nel titolo dell’epistola nei codici successivi che ce l’hanno trasmessa.

         Comunque sia, Efeso, splendida città costiera, aveva ospitato per ben due anni san Paolo che qui aveva vissuto anche momenti di forte tensione, che si possono rivivere quando si visitano le superbe e mirabili rovine di quella città, leggendo il capitolo 19 degli Atti degli Apostoli. La Lettera agli Efesini è un testo di straordinaria densità e originalità teologica, tematicamente molto vicina a quella inviata ai Colossesi, espressione anche di un’evoluzione nel pensiero dell’Apostolo, al punto tale che alcuni vi hanno visto la mano di un discepolo o di un collaboratore.

         Tanti sono i passi che ci conquistano leggendo lo scritto. Noi ne abbiamo scelto uno che, per un certo aspetto, dipinge una scena dal vivo. Proviamo a ricostruirla. Nel 1871 nell’area del tempio di Gerusalemme è venuta alla luce una targa di marmo, che ora è conservata presso il Museo dell’Antico Oriente di Istanbul. In essa si comminava la pena di morte ai pagani che avessero varcato il muro di separazione del “cortile dei Gentili”, ossia dei non Ebrei, che lo divideva dal “cortile degli Israeliti”, ove erano ammessi solo i membri del popolo dell’alleanza.

         Possiamo, quindi, immaginare che l’Apostolo – riferendosi proprio al tempio eretto da Erode e frequentato da lui e dallo stesso Gesù – pensi a un atto simbolico operato da Cristo con la sua predicazione e la sua morte e risurrezione: egli abbatte quel muro divisorio e fa abbracciare i due popoli, Ebrei e stranieri, in Cristo «chiamati a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo ed essere destinatari della promessa» (3,6). Il muro di odio che si interponeva tra due mondi diversi è spazzato via da colui che è definito in modo suggestivo «la nostra pace», Cristo.

         Attraverso «la sua carne», cioè la sua incarnazione e donazione di sé, il Figlio di Dio – continua Paolo – «crea in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e riconcilia tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’odio» (2, 15-16). Si spegne, così, la fiamma dell’inimicizia e della divisione, della superiorità e del disprezzo, in modo che brilli l’armonia dell’incontro, della comunione e della pace. Una lezione che il cristiano di oggi deve raccogliere, soprattutto quando affiora la tentazione di erigere muri di separazione nei confronti degli stranieri e dei diversi: «Non c’è più Giudeo né Greco, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Galati 3, 28).