IL RESPIRO DEL VIVENTE

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Il Signore ha in mano l’anima di ogni vivente e il respiro di ogni essere umano.
(Giobbe  12, 10)

 

È intensa la forza di questo versetto appartenente a quel capolavoro poetico e religioso che è il libro di Giobbe. L’“anima” (in ebraico nefesh), cioè il principio vitale di ogni creatura vivente, e lo “spirito” (rûah), ossia il respiro della “carne umana” (come si dice nell’originale ebraico), sono simili a un filo che sale verso l’alto e si lega alle mani di Dio. Se egli allenta quel filo lasciandolo cadere a terra o lo spezza, noi precipitiamo nella polvere e nella morte. Certo, per chi legge integralmente il capitolo 12 in cui è incastonato il versetto, che abbiamo estratto dal suo contesto, l’impressione che riceve è un’altra.

Il poeta biblico, infatti, parte proprio dalla verità fondamentale della signoria divina sulla vita per fare lanciare a Giobbe un terribile atto d’accusa: se Dio è il responsabile primo della nostra vita, lo è anche del bagaglio enorme di sofferenza che essa contiene. Come è noto, sarà questa la traiettoria lungo la quale si svolgerà la lunga, infuocata, sincera contestazione che il protagonista intesserà con Dio in pagine spesso così roventi da rasentare quasi la bestemmia.

Rimane, comunque, la critica contro ogni tentazione di ridimensionare la vita a un mero fenomeno biologico, aperto a ogni manipolazione e intervento senza nessuna remora di tipo morale o religioso. Giobbe, infatti, riconosce la trascendenza della vita. Nel caso, poi, dell’uomo e della donna – continua la Bibbia – la creatura è una epifania divina, se è vero che essi sono “immagine” di Dio (Genesi 1,27). Il poeta indiano Tagore, in una sua famosa affermazione, concludeva che, «quando nasce un bambino, è segno che Dio non si è ancora stancato dell’umanità».

Lo stupore che genera la creatura umana nella sua complessità fisica e psichica, ma soprattutto nel suo mistero interiore, non può essere spazzato via dalla supponenza di chi riduce tutto a mero meccanismo fisiologico. «Nell’istante in cui presi tra le braccia mio figlio provai un lontano riflesso di quella ineffabile sublime beatitudine che dovette colmare il Creatore il sesto giorno quando egli vide la sua opera imperfetta pur tuttavia compiuta». Questa esperienza di un  padre, descritta dallo scrittore austriaco Joseph Roth nel suo romanzo La cripta dei Cappuccini (1938), celebra la grandezza della vita umana: «pur piccola, bruttina e rossastra fosse la creatura tra le mie braccia – continuava lo scrittore – da essa emanava una forza invincibile».

La nostra vita è affidata a quelle mani divine, ne reca ancora l’impronta, ne porta sempre il tepore, nonostante i limiti, la fragilità e le debolezze insite nella creatura che è, sì, “immagine” divina, ma che non è mai Dio.