IL TEMPO DEL FIDANZAMENTO

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Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata.   (Geremia 2,2)

 

         «Enlil, le tue molte perfezioni fanno restare attoniti, la loro natura segreta è come una matassa arruffata che nessuno sa dipanare, è un arruffio di fili di cui non si trova il bandolo». È, questa, una strofa di un antichissimo inno sumerico dedicato al dio Enlil, il capo del pantheon di quella civiltà. Essa ben esprime una concezione della divinità per certi versi affine alla visione greca del Fato, un gorgo oscuro e misterioso che impera sugli stessi dèi, piegandoli a una logica indecifrabile. Anche uno dei “bellissimi nomi” di Allah è “l’inaccessibile” e – sia pure con una prospettiva teologica ben più alta – l’islam considera la divinità come invalicabile a ogni conoscenza intima, che non sia quella negativa («Dio non è come…»).

         Su tutt’altra traiettoria si muove, invece, la Bibbia che non solo presenta il Signore come una persona che può dire: «Io sono», ma anche ne descrive i sentimenti, le passioni, l’amore. È il caso di questo stupendo soliloquio di Dio che ci ha lasciato Geremia: in esso brillano sia la tenerezza di una relazione tra due fidanzati, sia l’«affetto» profondo che li unisce. Il termine ebraico usato, hesed, rimanda infatti alla fedeltà amorosa che intercorre tra due innamorati, vincolati tra loro non da un obbligo legale, bensì da un patto d’amore. Nello stesso libro profetico si legge questa appassionata professione d’amore di Dio: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo il mio affetto» (31,3).

         C’è, però, una nota stonata da registrare. Il frammento geremiano da noi proposto è incastonato in un brano che in ebraico è detto rîb, ossia un “dibattimento processuale”, una “lite giudiziaria”. Sì, perché in realtà questa sposa, Israele, così amata si è rivelata una donna infedele. Anzi, il profeta usa un’immagine durissima, “bestiale”: «Come una giovane cammella leggera e vagabonda, come asina selvatica, abituata al deserto, ansima nell’ardore della sua voglia: chi può frenare la sua brama?» (2, 23-24). La metafora è esplicitata nella sua dimensione religiosa, quando questa sposa dichiara la sua scelta: «Io amo gli stranieri, voglio andare con loro!» (2, 25). Gli amanti «stranieri» sono gli idoli. Come è evidente, la simbologia d’amore viene usata in tutte le sue iridescenze per descrivere l’esaltante e travagliato rapporto nuziale tra il Signore e il suo popolo.

         Israele è «una donna infedele a chi la ama» (3,20), è sfrontata come una prostituta che non arrossisce» (3,3), sta in attesa dei suoi clienti ai crocicchi delle strade «come fa l’arabo nel deserto» (3,2). Eppure, come dice il nostro frammento, Dio è pieno di nostalgia per il passato d’amore vissuto insieme nel deserto del Sinai. In verità, anche là Israele aveva tradito, ma il Signore sembra quasi scordare ogni infedeltà e alonare di luce quella fase antica, nella speranza di un futuro diverso, anche perché «egli non mantiene rancore per sempre né conserva in eterno la sua ira» (3,5). Ecco, allora, il ripetersi nel capitolo 3 – che fa parte sempre dello rîb o contesa tra Dio e Israele – per sette volte del verbo shûb, il “ritornare-convertirsi” (3,1.7.10.12.14.19.22), È il desiderio segreto anche del popolo peccatore, ma è soprattutto l’attesa insonne di Dio: «Ritorna, Israele ribelle, non ti mostrerò la faccia sdegnata perché io sono affettuoso e non conserverò per sempre l’ira» (3,12).