IN PARADISO
«Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno!». «In verità ti dico: Oggi stesso sarai con me in paradiso!». (Luca 23, 42-43)
È nota la definizione coniata da Dante per l’evangelista Luca nella sua opera latina Monarchia: egli è lo scriba mansuetudinis Christi, lo scrittore della mansuetudine, della misericordia, dell’amore di Cristo. Infatti, il terzo Vangelo – il più lungo dei quattro, fatto di 19404 parole greche e di 1151 versetti – è costellato di dichiarazioni di Gesù o di scene nelle quali brilla, ormai in azione, il discorso programmatico che Cristo aveva pronunciato nella sinagoga di Nazaret, sulla base di una citazione di Isaia: «Lo Spirito del Signore è su di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annunzio, a proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi» (4,18).
Gesù è venuto nel mondo a «cercare e salvare ciò che è perduto» (19,10), tant’è vero che è bollato come «amico dei pubblicani e dei peccatori» (7,34) e la sua è una costante scelta degli ultimi della terra, dei poveri, degli esclusi, degli emarginati. Significativo diventa, allora, l’ultimo gesto di Cristo che abbiamo voluto evocare attraverso il dialogo ultimo col malfattore crocifisso con lui. Il termine greco che lo definisce è kakourgós: esso non è tanto un rimando al tradizionale “ladrone”, quanto piuttosto – secondo molti studiosi – ai “criminali” per eccellenza, cioè i ribelli zeloti antiromani, condannati appunto alla pena capitale (specifica per loro) della crocifissione.
È curioso notare che anche l’altro “malfattore” si rivolge a Gesù, riferendosi ironicamente al suo titolo messianico: «Non sei tu il Cristo?» (23,39). Il compagno di pena, invece, lo invoca come re, ma si aggrappa a lui con fede e speranza: «Ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno!». E Gesù gli risponde con una promessa che è scandita dall’“oggi” dell’eternità paradisiaca: «Oggi sarai con me in paradiso». Tra l’altro, il termine “paradiso”, che è la trasposizione greca di un arcaico vocabolo iranico divenuto nell’ebraico biblico pardes, originariamente designava un giardino reale, una sorta di parco recintato, e nel Nuovo Testamento risuona solo tre volte: qui, poi in san Paolo quando descrive un suo rapimento mistico (2 Corinzi 12,4) e nell’Apocalisse, allorché si promette alla Chiesa di Efeso ai cui fedeli sarà dato «da mangiare dall’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio» (2,7).
Noi, però, a questo punto ci affidiamo per un commento ai versi di un famoso autore argentino, Jorge Luis Borges, che in una poesia della sua raccolta L’artefice (1960), intitolata appunto Luca XXIII, così descrive quell’ora estrema: «Nella fatica ultima di morire crocifisso, / udì, tra i vilipendi della gente, / che colui che moriva accanto a lui / era un Dio / e gli disse ciecamente: /Ricordati di me quando sarai / nel tuo regno! E la voce inconcepibile / che un giorno giudicherà tutti gli esseri / gli promise dalla croce terribile / il Paradiso. Nient’altro si dissero / finché / venne la fine…».