LA CITTà FUTURA
Cristo è lo stesso, ieri, oggi e nei secoli!...Andiamo verso di lui. Noi non abbiamo quaggiù una città permanente, ma cerchiamo quella futura. (Ebrei 13, 8.13-14)
Sul portale d’ingresso dell’Avvento abbiamo voluto apporre questa stupenda epigrafe, che abbiamo desunto da quella solenne omelia (o trattato teologico) che è la Lettera agli Ebrei. Come accade quando si è all’interno di una cattedrale bizantina, davanti ai nostri occhi si leva il volto onnipotente e glorioso di Cristo. Attorno a lui soffiano i venti della storia, fluiscono i secoli e gli eventi, procedono folle di uomini e donne, sbocciano e avvizziscono teorie e imperi: egli è ho autós, come si dice in greco, cioè Lui, sempre lo stesso.
Ecco, allora, l’invito ad andare verso di lui. La frase successiva, da noi abbreviata nella citazione, comprende anche una memoria delle ultime ore della vita di Gesù. Si ricorda, infatti, che egli «per santificare con il suo sangue il popolo, patì fuori della porta della città» di Gerusalemme (13,12). Il Golgota, il colle della crocifissione, era appunto fuori delle mura della città santa. Perciò, continua l’ignoto autore di questo scritto neotestamentario, «anche noi usciamo dall’accampamento [l’immagine è tratta dalla marcia di Israele nel deserto del Sinai verso la terra promessa] e portiamo l’obbrobrio [della croce]» seguendo Cristo.
Egli, certo, ci conduce sulla vetta del Calvario e alla croce; ma è da lassù che inizia il suo ingresso nella vita e nella gloria con la Pasqua di risurrezione. È l’esaltante appello a «cercare la città futura», ossia il vero nostro destino ultimo, strappandoci dalle sedi terrene ove ci aggrappiamo alle cose che periscono, illudendoci che questa, dove abbiamo l’attuale residenza, sia la «città permanente». L’esistenza cristiana è, dunque, un pellegrinaggio verso una meta che è oltre la frontiera del tempo e dello spazio, è quella Gerusalemme nuova e perfetta che l’ultima pagina della Bibbia (Apocalisse 21-22) canta con accenti appassionati ed entusiastici.
Il distacco è sempre arduo, come era accaduto ad Abramo che aveva dovuto lasciare il suo «paese, la patria e la famiglia di suo padre» (Genesi 12,1); e come ribadisce la stessa Lettera agli Ebrei, «egli obbedì per fede, partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (11,8). È, quindi, un rischio, una sfida che la fede ci fa affrontare con coraggio, tenendo fisso lo sguardo su quel volto sofferente e glorioso al tempo stesso. Cristo è la nostra stella polare nel cammino notturno della storia e dell’esistenza. Il nostro non è, allora, né un vagabondare senza meta né un nomadismo sociale, bensì un vero e proprio pellegrinaggio dell’anima.
Nonostante le apparenze di frenesia e di eccitazione, l’uomo contemporaneo è radicato e statico, come insegnava il celebre dramma Aspettando Godot, di Samuel Beckett (1952). L’ultima battuta pronunciata da uno dei due protagonisti è: «Andiamo!...»; ma l’annotazione scenica aggiunge: «Essi, però, non si muovono». L’itinerario cristiano è, invece, reale: è ricerca, è movimento non verso un passato nostalgico come per Ulisse, ma – come per Abramo – un viaggio verso il poi, l’oltre e l’altro, anzi l’Altro divino.