LA KéNOSIS DI CRISTO

Print Mail Pdf
condividi  Facebook   Twitter   Technorati   Delicious   Yahoo Bookmark   Google Bookmark   Microsoft Live   Ok Notizie

Cristo Gesù svuotò se stesso assumendo la condizione di schiavo… Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. (Filippesi  2, 7-8)


     

         Nelle nostre memorie scolastiche la città macedone di Filippi – che portava il nome del suo fondatore, Filippo II, padre di Alessandro Magno (IV sec. a.C.) – è presente per la battaglia decisiva del 42 a.C. tra Ottaviano Augusto e Marco Antonio, da una parte, e Bruto e Cassio, dall’altra, battaglia che ha generato il motto «Ci rivedremo a Filippi», riferito dallo storico greco Plutarco. Per il cristianesimo, Filippi – che ancor oggi offre una significativa testimonianza archeologica della sua gloria antica – è legata alla presenza di Paolo e alla Lettera che, attorno al 55-56, indirizzò a quella comunità cristiana a lui unita da un intenso vincolo di amicizia.

         In questo scritto, come annotava uno studioso, Jerome Murphy O’Connor, «si sente battere il cuore di Paolo»: «Nessuna Chiesa aprì con me – confessa l’Apostolo – un conto di dare e di avere, se non voi soli… Sono ricolmo dei vostri doni… che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio» (4, 15-18). Ora, nel capitolo 2 di questa Lettera è incastonato un inno (2, 6-11) che è modellato su un simbolo spaziale, la discesa-ascesa di Cristo sull’asse cielo-terra-cielo. Ecco innanzitutto la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna, divenendo uomo tra gli uomini, abbandonando la sua gloria. Anzi, il suo è un vero e proprio precipitare in un abisso: egli, infatti, muore in croce, il supplizio riservato agli schiavi, agli ultimi della terra.

         Solo così Cristo diventa veramente fratello di tutte le creature umane, non escludendo neanche quelle che sono nei bassifondi estremi della società, inserendo, però, col suo passaggio nella nostra carne, la presenza salvifica e trasformatrice della sua divinità. Ma dalla vetta del Golgota ove si leva la croce ha inizio l’altro movimento spaziale, quello dell’ascesa, che l’inno descrive nella sua seconda parte (2, 9-11). Cristo ritorna nella sua gloria col nome di Kyrios, “Signore”, appellativo divino; egli brilla di nuovo nella luce della trascendenza che si era eclissata nella morte in croce, quando Gesù si era «svuotato» della sua dignità altissima non solo per essere accanto all’umanità, ma anche per entrare nel suo grembo, fatto di miseria, di limite e di peccato così da redimerla.

         Ecco, noi vorremmo ora puntare brevemente la nostra attenzione proprio su quella frase «svuotò se stesso», in greco ekénosen, un verbo che ha dato origine a un vocabolo “tecnico” della teologia, kénosis, destinato appunto a indicare l’abisso in cui Dio precipita nel Figlio morto in croce e umiliato. È, questo, il segno pieno e definitivo di quel mistero centrale del cristianesimo chiamato “Incarnazione”. Nella kénosis-“svuotamento” si ha, infatti, il vessillo e la sintesi della storia di Gesù di Nazaret, divenuto uomo tra gli uomini, povero, umile, condannato a una pena capitale infamante, riservata solo agli schiavi e ai ribelli antiromani. Eppure, quello “svuotamento” liberamente scelto da Cristo non ne annienta la divinità.

         Essa riappare quando si è raggiunto il fondo ultimo della kénosis, la morte. È la che si apre l’alba di Pasqua, la gloria della risurrezione. Vorremmo concludere, allora, questa nostra riflessione sul frammento di un testo paolino così importante con le parole che un famoso scrittore russo, l’autore del Dottor Živago, Boris Pasternak (1890-1960), mette in bocca allo stesso Gesù: «Scenderò nella bara e il terzo giorno risorgerò / e, come le zattere discendono i fiumi, / in giudizio, da me, come chiatte in carovana, / affluiranno tutti i secoli dell’umanità».