LA MORTE NON CI SARà Pù
Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più, né afflizione né lamento né fatica, perché le cose di prima sono sparite! (Apocalisse 21,4)
Ha ora inizio «la sinfonia del Nuovo Mondo» di Dio: così uno studioso introduceva gli ultimi due capitoli dell’Apocalisse, libro, certo, di giudizio severo sul male della storia, ma anche e soprattutto di speranza finale. Potremmo immaginare queste pagine conclusive come una vetta sulla quale viene deposta «la città santa, la Gerusalemme nuova che viene da Dio» (21,2). Sorge l’aurora del giorno della redenzione piena, un’alba attesa quando si era nella notte della paura e dell’oppressione, nella quale imperversavano il Drago, la Bestia, la Prostituta e Babilonia, la città infernale.
Noi da quelle pagine abbiamo ritagliato una celebre proclamazione in cui entra in scena il Dio-Emmanuele, cioè colui che è con noi, divenuto cittadino della Gerusalemme nuova. Egli s’avvia per le strade della città per incontrare tutti i sofferenti i cui volti sono rigati dalle lacrime: come aveva annunziato con queste stesse parole il profeta Isaia (25,8), il Signore terge quel pianto e fa sbocciare sulle labbra di tutti gli infelici un sorriso.
Da quelle stesse strade vengono espulsi i tristi e lugubri cittadini che ora popolano tutti i nostri quartieri e che portano questi nomi: Morte, Afflizione, Lamento, Fatica. È il vecchio mondo nel quale noi siamo ancora immersi perché anche oggi, mentre leggete queste righe, nella vostra città terrena o nel vostro villaggio una persona sta morendo, in una famiglia domina la sofferenza, un uomo o una donna levano il loro lamento solitario e c’è chi è spossato dalle fatiche e dagli affanni dell’esistenza.
L’annuncio ultimo che la Bibbia ci riserva è, dunque, questo: la storia non è in mano al caos o al caso, né è votata al baratro del nulla, ma come è uscita dalle mani del Creatore, così verrà da lui raccolta per essere ricomposta in una nuova armonia e in una sua perfezione e pienezza. Il vecchio mondo, così aggrovigliato nella confusione e posto all’insegna dell’ingiustizia e sotto lo stemma della Bestia – per usare una famosa immagine apocalittica –, lascerà lo spazio alla creazione rinnovata, alla luce e alla gioia. Ammoniva già il profeta Isaia: «Non ricordate più le cose antiche e alle cose passate non date più attenzione!» (43,18).
In questa attesa noi dobbiamo offrire la nostra mano a Dio, il costruttore della nuova Gerusalemme; non lasciamoci scoraggiare, né tentare dall’illusione dell’evasione. La speranza è operosa e ha i piedi piantati nel terreno del presente, anche se è minato e irto di spine come per altro ha insegnato l’Apocalisse in tutti i capitoli precedenti. «Se sapessi che il mondo deve finire oggi – si dice che affermasse Lutero – io pianterei lo stesso un alberello di melo». Si deve continuare a costruire, a piantare, a generare, a operare nel bene, nella giustizia e nella verità, tenendo gli occhi fissi verso quella meta di luce. Perché «chi attesta queste cose dice: “Sì, verrò presto!”. Amen! Vieni, Signore Gesù!» (22,20).