LA PRIMA PREDICA DI GESù

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Il tempo è giunto a pienezza, il Regno di Dio è vicino! Convertitevi e credete nel Vangelo!   (Marco 1,15)

 

         Sappiamo che Voltaire aveva il dente avvelenato coi preti. Tuttavia, non aveva tutti i torti quando diceva che la loro predicazione è spesso «come la spada di Carlo Magno, lunga e piatta»; e un altro francese famoso, Montesquieu, spiegava: «I predicatori quello che non sanno darti in profondità te lo danno in lunghezza». Ho fatto questa premessa perché quella che ora ho proposto è, per così dire, la prima predica di Gesù, stando almeno al Vangelo di Marco. La cornice di questa citazione suona, infatti, così: «Dopo che Giovanni Battista fu arrestato, Gesù si recò in Galilea, predicando il vangelo di Dio, e diceva…» (1,14).

         Eppure questa brevità oratoria, affidata solo a quattro frasi, è di una densità sorprendente che cercheremo ora di dipanare con un’analisi accurata. Una premessa: abbiamo parlato di “predica”, in realtà questo che Gesù proclama salendo sulla ribalta del suo ministero pubblico è un kerygma, in greco un “annunzio” primo, fondamentale e destinato a tutti, non a chi già crede, come dovrebbe accadere per l’omelia-predica-sermone domenicale. Le parole di Gesù sono evidentemente articolate in quattro frasi che si dispongono in due coppie.

         Iniziamo con la prima coppia che è di taglio “teologico”, cioè descrive l’iniziativa, l’opera, l’intervento divino. Eccone le due componenti. Innanzitutto «il tempo è giunto a pienezza»: abbiamo tradotto così, invece del solito «è compiuto» per essere più fedeli al greco che ha il verbo della “pienezza” (peplérotai) e che usa il vocabolo kairós, indicante il “tempo” decisivo, pieno di eventi e di vita, e non il semplice chrónos, che designa il tempo meramente “cronologico”, esterno e fatto di date. L’idea è, allora, squisitamente religiosa: la storia della salvezza, iniziata con la prima alleanza di Dio con Israele, giunge ora con Cristo al suo apice, alla sua pienezza.

         Il secondo detto della “predica” di Gesù introduce il «Regno di Dio» che, come è noto, è un’espressione simbolica, già presente nell’Antico Testamento, destinata a definire il disegno che Dio vuole attuare nel mondo e nella storia, un progetto «di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace», come dice la liturgia della solennità di Cristo re dell’universo. Ebbene, questo «Regno di Dio è vicino»; il verbo greco usato, enghýzein, è curioso perché in sé ha un valore di futuro e di prossimità, come qualcosa che è imminente, da attendere presto, o accanto a noi; tuttavia, il verbo è coniugato al perfetto che in greco denota un’azione al passato il cui effetto perdura nel presente. Il Regno di Dio è, quindi, già in parte compiuto, ma è ancora adesso in azione e tende a una sua piena attuazione futura.

         Eccoci, poi, all’altra coppia che è, invece, “antropologica”, ossia è riservata all’opera dell’uomo. Egli deve innanzitutto «convertirsi», in greco metanoéin, letteralmente “cambiare la mente”, cioè la sua visione del mondo e delle sue scelte, alla luce del Vangelo. A questo mutamento radicale deve, perciò, unirsi la fede nel Vangelo. Anche qui il greco è suggestivo perché, ricalcando un’espressione semitica che evoca un “basarsi/fondarsi su”, richiede che il credente fondi la sua esistenza sul Vangelo. Non è, quindi, solo un’adesione teorica al Vangelo, al suo annuncio e ai suoi enunciati, ma è anche una scelta coerente di vita, una fede-fiducia piena e vitale. Una nota in appendice: anche se un po’ faticosa, si vede quanto sia necessaria l’analisi sulle parole originarie dei Vangeli per coglierne il succo pieno e profondo.