LE DUE ANIME E LE DUE GOLE

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Se offrirai all’affamato il pane, se sazierai chi è digiuno, allora la tua luce brillerà tra le tenebre, la tua tenebra diverrà un meriggio. (Isaia 58, 10)

 

         «Questo è il digiuno che io voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo…, dividere il pane con l’affamato, ospitare in casa i miserabili che sono senza tetto, vestire chi vedi nudo, non distogliere gli occhi da quelli della tua carne». È, questo, il cuore di un ampio brano del libro di Isaia (58,1-12) dedicato appunto al vero digiuno. L’astinenza dal cibo per finalità rituale e spirituale è un’antica prassi comune a tante religioni, compresa la cristiana e la musulmana. Anzi, come è noto, per l’Islam il digiuno durante il mese di Ramadan è una delle cosiddette “cinque colonne” fondanti la stessa fede.

         L’anima profonda di questo gesto, che lo rende molto diverso da una dieta salutista, è ben illustrato dai versetti che abbiamo citato in apertura (vv. 5-7) e dal motto che abbiamo assunto per questa nostra riflessione sempre dal capitolo 58 di Isaia: si rinuncia al cibo per offrirlo all’affamato. Detto in altri termini, la privazione non è fine a se stessa, ma diventa un segno di carità fraterna. Per questo, il digiuno materiale è un simbolo di una serie di atti di donazione, anche spirituale e sociale, da compiere: liberare dalle oppressioni, scegliere di costruire una società più giusta fondata non sull’interesse personale ma sull’amore, non ignorare le mani dei miseri che si tendono verso di noi, ricordandoci che anch’essi sono nostra “carne”, cioè creature umane come noi.

         Ora, però, vorremmo suggerire un’analisi più accurata del frammento che abbiamo proposto secondo la traduzione solitamente usata dalle varie Bibbie. In realtà, nell’originale ebraico c’è un suggestivo gioco di parole che è costruito attorno a un unico vocabolo, nefesh, che contemporaneamente significa “anima, vita”, e “gola, desiderio, appetito”. Ecco come suona il testo originario: «Se offrirai all’affamato il tuo nefesh, se sazierai il nefesh della persona oppressa…». Come si vede, s’incontrano tra loro due “anime”, due “vite”, quella di chi dona e quella del povero. È ciò che deve innanzitutto compiersi nella vera solidarietà fraterna: è necessario instaurare un legame personale, dobbiamo sentire – come diceva prima il profeta – che siamo della «stessa carne».

         La vera carità «non si vanta, non è altezzosa, non manca di rispetto» (1 Corinzi 13,4-5), non è un gesto compiuto dall’alto con la sottile soddisfazione di essere generosi nei confronti di un essere inferiore miserabile. È, invece, un essere spalla a spalla, è l’incontro di due “anime” che si abbracciano e si sostengono. Ma possiamo aggiungere un’altra notazione. Nefesh, dicevamo, è anche “gola, desiderio, appetito”. Ecco, nell’amore fraterno il mio respiro, la mia gola si mette in sintonia con quella del prossimo che soffre. Se ho fame, prima di gettarmi sul cibo e rimpinzarmi fino all’eccesso, devo sentire idealmente in me anche l’anelito dell’affamato e, così, evitare l’atto sprezzante del ricco gaudente che lascia solo le briciole al Lazzaro di turno, per stare alla celebre parabola di Gesù (Luca 16, 19-31).

         Solo così, nell’incontro tra le due “anime” e le due “gole” che si muovono all’unisono, diverremmo luminosi, ossia partecipi dello splendore del Dio che è «luce» e che è «amore» (1Giovanni 1,5; 4,8.16). Ci ammonisce san Giacomo: «Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi!, senza dare loro il necessario per il corpo, che giova?» (2,15-16).