LE VELE E LA CORSA

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Il mio sangue sta per essere versato in libagione. È ora il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia. Ho terminato la corsa. Ho conservato la fede. (2 Timoteo 4, 6-7)

 

         Quando cala il sipario su un anno e ci si accorge di esserci avvicinati di più a quella frontiera estrema, la morte, è spontaneo gettare uno sguardo sul fiume del passato per tentare un bilancio della propria esistenza. Lo fa anche san Paolo in questo testamento ideale di grande forza, anche se venato da una trattenuta emozione. Quattro sono le immagini che egli fa brillare, giunto all’estuario della sua vita, confidandosi con l’amato discepolo Timoteo, amico e compagno di tante vicende apostoliche.

 

         Il primo simbolo è quello sacrificale della libagione di vino (o di olio o anche di acqua) che veniva fatto esalare su un braciere perché salisse come offerta a Dio. L’Apostolo si è totalmente consumato nella sua missione, attuando quello che proponeva ai cristiani di Roma: «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (12,1).

 

         La seconda evocazione è quella dell’análysis in greco: un gesto che può alludere sia alle vele sciolte per salpare verso il mare aperto e nuovi lidi, sia al levare delle tende da parte del nomade che si mette in marcia alla ricerca di nuovi orizzonti e di pascoli freschi. Paolo sente che ormai per lui si sta aprendo il viaggio verso l’oceano di luce che è l’eternità, ove incontrerà Dio Padre e il Figlio Gesù Cristo che egli ha tanto amato e testimoniato.

 

         La terza figura è quella del soldato che «ha combattuto la bella/buona [in greco c’è kalón] battaglia» della vita. Sappiamo che non di rado l’Apostolo ha usato nei suoi scritti la metafora dell’armatura per indicare l’impegno del cristiano in un’esistenza giusta, in lotta contro la tenebra del male (si legga Efesini 6,10-17). L’esistenza paolina è stata, infatti, contrassegnata da una tensione costante: suggestivo è il paragrafo autobiografico che egli ci ha lasciato nella Seconda Lettera ai Corinzi, con un lungo elenco di rischi e pericoli corsi durante la sua opera di evangelizzatore (11, 21-33).

 

         La quarta immagine è sportiva e rimanda alla corsa nello stadio che si concludeva con la premiazione. Paolo l’aveva già usata, assieme a quella del pugilato, in un passo della Prima Lettera ai Corinzi: «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo!... Io corro, ma non come chi non ha una meta. Faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria…, perché non mi succeda… di essere squalificato» (9, 24-27). E ai Filippesi ripeteva: «Io corro verso la meta per raggiungere il premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (3,14).

        

         Nella corsa della vita l’Apostolo ha sempre tenuto alta la fiaccola della fede, come egli confessa nella frase finale che in greco è rimata: ton drómon tetéleka, ten pístin tetéreka, «ho terminato la corsa, ho conservato la fede». Lo sguardo ormai si protende oltre la storia, quando sorgerà l’aurora dell’“epifania” del Signore che suggellerà la vicenda personale di Paolo e quella di tutta la storia: «Ora mi rimane la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, in quel giorno mi consegnerà, e non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno amato la sua rivelazione» (4,8).