NON SCHIAVO MA FRATELLO

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Riavrai Onesimo non più come schiavo, ma come fratello carissimo, per me e ancor più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore. (Filemone vv. 15-16)


 

         Ecco alcune righe dell’ultimo commovente biglietto che san Paolo, ormai «anziano e in carcere» (v. 9), indirizza a un certo Filemone, un amico ricco e generoso, collaboratore nell’annunzio del Vangelo di Cristo, nella cui casa si radunava una comunità di cristiani, anche se è ignota la località (vv. 1-2). A lui l’Apostolo chiede un favore un po’ sorprendente. Durante la sua carcerazione – forse si tratta degli arresti domiciliari a Roma in attesa del processo finale presso la suprema cassazione imperiale – Paolo aveva incontrato e «generato» alla fede uno schiavo di nome Onesimo (vv. 10-11).

         Ebbene, costui era fuggito proprio dalla casa di Filemone: secondo il diritto romano doveva essere restituito al padrone che ne poteva decidere la sorte come più gli gradiva, anche condannandolo a morte. L’Apostolo avanza una richiesta che illumina in modo inequivocabile la trasformazione che il cristianesimo stava innestando nella società pagana. «Caro Filemone – dice in pratica Paolo – devi riaccogliere Onesimo non solo non vendicandoti, ma neppure rimettendolo a fare lo schiavo, bensì lo devi abbracciare come un fratello carissimo».

         Tale egli è, continua l’Apostolo, non solo perché è un uomo come te e me, ma soprattutto perché ora è cristiano e quindi «fratello nel Signore». Non è forse vero che anni prima Paolo ai Galati aveva scritto che «non c’è più schiavo né libero, ma tutti sono uno in Cristo Gesù» (3, 28)? In questa luce lo schiavo, divenuto fratello, è come se fosse un dono divino offerto a Filemone, il suo antico padrone, e san Paolo intesse al riguardo anche un giuoco di parole sul nome “Onesimo”, che in greco significa “utile”: «lui, un giorno, ti fu inutile [fuggendo e ribellandosi], ora è utile a te e a me» (v. 11).

         Anzi, nella Lettera si aggiunge pure un pizzico di ironia quando l’Apostolo annota: «Se in qualcosa ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: pagherò io. Per non dirti, però, che anche tu mi sei debitore, e proprio di te stesso!» attraverso la conversione alla fede (vv. 18-19). Si abbattono ormai le classi, perché «noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito, in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi» (1 Corinzi  12,13). E i padroni – come aveva scritto agli Efesini – devono «mettere da parte le minacce contro gli schiavi, sapendo che il Signore, loro e vostro, è nei cieli e in lui non vi è preferenza di persona» (6,9).

         San Paolo, dunque, esce di scena con questo delizioso biglietto, segno di amore, di libertà e della novità cristiana. C’è nelle righe finali un bagliore di speranza nel futuro: «Intanto preparami, o Filemone, un alloggio, perché, grazie alle vostre preghiere, spero di essere restituito a voi» (v. 22). Il sospetto è che questo sogno non si sia realizzato, prima che la spada troncasse a testa dell’Apostolo, sotto Nerone imperatore.