SENZA PIù UN FILO DI SPERANZA
I miei giorni scorrono veloci come una spola, svaniscono senza più un filo di speranza. (Giobbe 7,6)
«Ora sto rileggendo e copiando in un libricciuolo tutto il libro di Giobbe… Sublime libro! Come è pieno di grande e magnanimo dolore! Come parla con Dio senza superstizione, e con le proprie sciagure senza bassezza!». È questo solo l’inizio di un passo di una lettera del 1808 di Ugo Foscolo, in cui il famoso poeta esaltava questo poema biblico che, prima ancora di essere testo di alta teologia, celebrazione del mistero di Dio e del male, è uno dei capolavori letterari in assoluto dell’umanità.
Se volessimo scegliere le parole più belle del libro, dovremmo in pratica citarlo quasi tutto, tanto è intensa la fragranza poetica e spirituale delle sue pagine. Noi abbiamo scelto ora solo un versetto in cui Giobbe contempla con malinconia amara il fluire della sua vita: «vento è il mio vivere, i miei occhi non contempleranno più la felicità», continuerà nel verso successivo (7,7). Davanti alla soglia del baratro della morte a cui sembra votato, egli per un istante getta uno sguardo sull’intera sua esistenza.
L’immagine adottata per rappresentarla è lieve come un soffio, mobile come il fluire delle acque. Si tratta di un simbolo universale, quello del tessitore e della spola: chi non ricorda l’analoga opera delle Parche della mitologia greca, le quali fanno scorrere il filo della vita di ogni uomo e una di esse, di nome Atropo, è incaricata di troncarlo nel momento fatale della morte? Anche il re Ezechia, colpito da una grave malattia, si rivolge a Dio così: «Come un tessitore hai arrotolato la mia vita, e ora mi recidi dall’ordito?» (Isaia 38, 12).
Nel passo di Giobbe ci sono, però, due piccole allusioni legate all’originale ebraico. La prima è solo “sonora”: i due verbi “scorrere” e “svanire” si assomigliano dal punto di vista fonetico, cioè del loro suono (qallû / jikelû). Il flusso delle giornate ha lo stesso ritmo monotono e costante del filo che corre dalla spola all’ordito. Ma è particolarmente suggestivo il secondo dato, affidato al vocabolo ebraico finale che è così impostato: « (i miei giorni) svaniscono senza più tiqwah». Ora, in ebraico c’è un ammiccamento espresso proprio in questo termine che può significare “filo” o “speranza”. Entrambi i significati sono adatti: non c’è più un “filo” che scorre dalla spola perché ormai Giobbe sente che la sua vita è alla fine; non c’è più “speranza” per una vicenda umana così sventurata.
Noi abbiamo tradotto con una formula italiana fissa che ben s’adatta unendo i due significati: la storia personale di Giobbe non ha più «un filo di speranza». In questa desolazione estrema, tuttavia, il grande sofferente non abbandona il suo anelito verso Dio, provocandolo ininterrottamente perché gli risponda, ignorando le facili consolazioni di rito dei suoi amici. E quel Signore, interpellato spesso da Giobbe con durezza quasi blasfema, alla fine scenderà e parlerà al suo fedele così provato, il quale potrà finalmente esclamare: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42, 5).