UN TOCCO ALLA PORTA

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Ecco, sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io cenerò con lui e lui con me. (Apocalisse 3,20)

           Ci sono due termini italiani suggestivi per definire le raccolte di frasi illuminanti o di testi importanti, proposti in una selezione: antologia e florilegio. In pratica essi sono sinonimi perché il primo, sulla base del greco, il secondo, collegandosi al latino, rimandano alla parola “fiore”. Ecco, quello che noi stiamo facendo nella nostra rubrica è proprio un raccogliere “fior da fiore” all’interno di quell’immenso giardino di poesia e di fede, di simboli e di verità che è la Bibbia.

           Ora abbiamo fatto sbocciare davanti agli occhi dei nostri lettori una corolla mirabile, desunta dall’ultimo libro delle Sacre Scritture, l’Apocalisse, uno scritto che è inchiodato nella mente di molti come se fosse un oroscopo di catastrofi cosmiche e di sciagure storiche, mentre in realtà è un canto – certamente costellato di immagini veementi e frementi – di realismo, ma anche e soprattutto di speranza. E il versetto da noi scelto, che suggella l’ultima delle sette “lettere” indirizzate ad altrettante Chiese dell’Asia Minore (nell’attuale Turchia), ospita una scenetta dolce, ma emozionante.

           È sera. Cristo avanza per le strade deserte della nostra città. Noi siamo rinchiusi nella nostra casa, avvolti dalla protezione del caldo delle stanze e del calore umano degli affetti, nel cerchio del nostro piccolo orizzonte. Ecco un tocco alla porta, un trillo di campanello, diremmo noi oggi. La scena è simile a quella evocata nel Cantico dei cantici (5, 2-6), quando la donna amata ode la voce del suo compagno che è alla porta e armeggia al chiavistello bussando. Essa, però, per vezzo o per pigrizia, non si leva dal letto per aprirgli la porta e, così, l’amato se ne va, scomparendo nella notte.

           Sta, quindi, a noi decidere di alzarci ad aprire a Cristo per averlo ospite della nostra mensa, partecipe della nostra famiglia, pronto ad ascoltare e a condividere le nostre ansie e le nostre speranze, il riso e le lacrime, il cibo semplice della tavola e le confidenze del cuore. Ora, se ben osserviamo questa che è una mini-parabola, scopriamo che essa è una sorta di lezione teologica. Sì, usiamo proprio questo aggettivo solenne. Infatti, se Cristo non passasse e non bussasse, noi resteremmo soli, immersi nel nostro male, nelle colpe, nella nostra fragilità. Se noi non aprissimo, egli se ne andrebbe passando oltre.

           Ecco: grazia divina e libertà umana s’incrociano nella scenetta dipinta in un solo versetto; Dio e uomo devono incontrarsi ed è così che scatta la comunione, l’abbraccio, l’intimità simboleggiata dalla cena in comune, lui con noi, noi con lui. Aveva ragione un commentatore dell’Apocalisse, Pierre Prigent, quando scriveva: «Ecco un versetto che non si ha voglia di spiegare con i pesanti strumenti dell’analisi storica e letteraria, tanto il suo messaggio è chiaro e purissima è la sua bellezza».