UNA LUCE ABBAGLIANTE

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Il popolo che camminava nelle tenebre vide una luce abbagliante, sugli abitanti della terra tenebrosa una luce brillò.  (Isaia 9,1)

 

         In tutte le chiese del mondo, nella Messa della notte di Natale, si leggono queste parole dalla forte carica poetica e spirituale. Luce e tenebre sono per eccellenza la coppia simbolica che raffigura il bene e il male, Dio e Satana, detto appunto il principe delle tenebre. Anche san Giovanni, in quel capolavoro dell’inno che funge da prologo al suo Vangelo, rappresenta così il Natale di Cristo: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende tra le tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta… Veniva nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo» (1,4-5.9).

 

         Abbiamo scelto l’avvio di un canto che il profeta Isaia dedica al re-Messia: è quasi la prima strofa di un corale pieno di luce e di gioia. La pagina precedente descriveva una scena livida al cui centro c’era un uomo solitario e affamato che lanciava uno sguardo verso il cielo cupo e scagliava una bestemmia, chinava a terra gli occhi e imprecava contro il re, mentre un sudario di buio e di morte lo avvolgeva. Ma all’improvviso ecco aprirsi uno squarcio di luce abbagliante e apparire un nuovo mondo e soprattutto una nuova speranza, quella messianica.

 

         Ascoltiamo le parole di Isaia, il Dante della poesia ebraica: «Quell’uomo si aggira nel paese oppresso e affamato. Preso dalla fame e dall’ira, maledice il suo re e il suo Dio. Alza lo sguardo verso l’alto, lo riporta verso terra: ecco, solo angoscia e tenebre, oscurità e desolazione. Ma la caligine è all’improvviso dissipata: dove c’è angoscia non c’è più oscurità» (8, 21-23). Subito dopo si apre lo scenario di luce che sopra abbiamo evocato e quell’uomo, che incarnava il popolo ebraico, ora ammira lo splendore dell’era messianica.

 

         Le parole che seguono sono tutte scandite dalla felicità: «Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la felicità. Davanti a te gioiscono come si gioisce nella mietitura e come si gioisce alla spartizione del bottino» (9, 2). È un’allegria quasi primitiva, elementare: i simboli della mietitura e della preda di guerra evocano i due momenti emblematici costanti della storia di un popolo: la pace e la guerra. Il canto prosegue poi illustrando le ragioni di questa felicità, ossia la liberazione dalla schiavitù oppressiva e la fine delle battaglie, suggestivamente sceneggiata in un immenso rogo che brucia le calzature militari e i mantelli macchiati di sangue dei soldati.

 

         Ma c’è una ragione suprema che giustifica questa gioia assoluta ed è la nascita di un bambino, il futuro re-Messia i cui quattro titoli regali sono il segno alto della nuova era in cui la politica non sarà più un’espressione dura di potere, ma un’opera di pace e di salvezza comunitaria: «I suoi nomi saranno: Consigliere ammirabile, Potente come Dio, Padre per sempre, Principe della pace» (9,5). Luce e gioia avvolgono, dunque, questo bambino che incarna la speranza messianica: «Dio, da’ al re il tuo giudizio…, regga con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri con rettitudine. I monti facciano scendere pace sul popolo e le colline giustizia…» (Salmo 72, 1-3).