Sono trascorsi 45 anni da quel 7 maggio 1964 allorché Paolo VI incontrava gli artisti per riannodare un’alleanza tra Chiesa e arte che si era talmente allentata da infrangersi. Eppure, affermava il pontefice, la sfida ultima della creazione artistica è quella di «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità». La sua meta è introdurre nello stampo limitato della parola, della materia, del suono, dell’immagine l’infinito e l’eterno, è rendere visibile l’Invisibile e non certo rappresentare il visibile, come confessava Miró. In questo senso l’arte ha una naturale parentela con la fede, e le loro missioni dovrebbero essere analoghe: rompere la superficialità, varcare i confini, affacciarsi sugli abissi dell’essere e dell’esistere, trascendere i perimetri dell’evidenza ovvia. Aveva ragione Braque quando, nel suo scritto Il giorno e la notte, osservava che «la scienza rassicura, mentre l’arte è fatta per turbare». E la religione non è forse inquietudine, nella tensione verso l’Oltre e l’Altro, penetrando nel mistero, come insegnava il celebre motto agostiniano Inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te?

         A distanza di quasi mezzo secolo da quell’appello di Paolo VI, si deve riconoscere che l’incontro tra arte e fede è rimasto archiviato nell’orizzonte dell’auspicio. Fatta qualche eccezione soprattutto nel campo dell’architettura, i due protagonisti al massimo si sono sfiorati, qualche volta provocati, più spesso ignorati. La religione si è non di rado affidata al mero ricalco degli stili e delle espressioni di un passato, glorioso, oppure si è accontentata dell’artigianato e ha aborrito il rischio di avviarsi sui sentieri d’altura di nuove ricerche e di tipologie inedite. L’arte, dopo aver relegato nei depositi del passato le grandi narrazioni bibliche, i simboli, le figure e le parabole sacrali, si è incamminata sulle strade sempre più aggrovigliate delle sperimentazioni, delle mere ricerche stilistiche, delle elaborazioni sofisticate e autoreferenziali, evitando accuratamente ogni interpretazione trascendente e ogni tentazione di «creare un mondo», come proponeva all’arte Heidegger, definendone lo statuto.

         Di fronte a questa divaricazione, la cui forbice sembrava sempre più allargarsi, dieci anni fa, il giorno di Pasqua del 1999, Giovanni Paolo II inviava la sua Lettera agli artisti, «per confermare la stima ma anche per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l’arte e la Chiesa». È su questa scia che il prossimo 21 novembre Benedetto XVI si presenterà davanti allo straordinario fondale michelangiolesco della Sistina per un nuovo incontro con l’arcobaleno variegato dell’arte, che va dalle tradizionali espressioni della pittura, della scultura, dell’architettura, della letteratura e della musica fino al cinema, al design, alla video-art e così via. Il suo discorso sarà come la prima battuta di un dialogo che attende le necessarie risposte degli artisti i quali, come è noto, parlano con le loro opere. Sarà un dialogo faticoso perché entrambi gli interlocutori devono superare riserve, sospetti, esitazioni e varcare distanze.

         Più che stilare un cahier des doléances reciproco, che per altro può essere facilmente allestito, preferirei ora riservare un cenno alla radice teologica secondo la quale la fede cristiana esige e legittima la rappresentazione artistica, distanziandosi in questo dal silenzio iconico e dall’ineffabilità sacrale ebraica o islamica. È ben noto il gelido monito del Decalogo: «Non ti farai immagine alcuna» di Dio (Esodo 20,4). Monito comprensibile in una civiltà “realistica” in cui l’eidolon, l’“immagine”, diveniva automaticamente “idolo”, come attesta lo sfolgorare del vitello d’oro. La catarsi da ogni materialismo sacrale è, certo, indispensabile ma non deve spingersi fino all’iconoclasmo che ha celebrato talora i suoi trionfi: nell’VIII secolo in Oriente anche per ragioni politiche, oppure nella Riforma protestante per motivi spirituali e polemici (ma per fortuna sarà allora la musica – e il protestante Bach ne è l’emblema supremo – a supplire all’aniconismo riformatore).

         In realtà il cuore stesso del cristianesimo esige l’immagine, proprio a causa dell’incarnazione di Dio in Gesù Cristo: Dionigi l’Areopagita, pseudonimo di un originale teologo del V-VI secolo, dichiarava lapidariamente che in Cristo si ha «il visibile dell’Invisibile», essendo egli – come esplicitamente proclamava san Paolo – l’eikôn, l’“icona-immagine” perfetta di Dio (Colossesi 1,15). Rasentando il paradosso, un altro teologo dell’VIII-IX secolo, Teodoro Studita, allineandosi sempre sul filo dell’incarnazione divina non esitava ad affermare che, «se l’arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato». Si capisce, allora, l’appassionata difesa che la Chiesa d’Oriente farà nei confronti dell’icona, la cui potenza espressiva religiosa, pur nella povertà dei mezzi e delle forme, raggiungerà apici impressionanti: basti solo evocare il nome di Andrej Rublëv la cui vicenda umana e artistica brilla nell’omonimo, indimenticabile film di Tarkovskij.

         Si comprendono anche le parole della citata Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II: «In un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente, infatti a quanto avviene nei sacramenti, essa rende presente il mistero dell’Incarnazione. Proprio per questo la bellezza dell’icona può essere gustata all’interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce». È ancora in questa prospettiva che si giustifica il consiglio del cantore delle immagini per eccellenza, strenuo oppositore dell’iconoclasmo, Giovanni Damasceno, il quale già nell’VIII secolo suggeriva ai cristiani: «Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri». Ecco, dunque, perché la Chiesa deve ritornare all’arte, anche nelle sue nuove rappresentazioni, adottando e adattandosi alle sue nuove grammatiche, ancorandole, però, sempre al principio dell’Incarnazione e della “visibilità” divina.

            A questo punto bisognerebbe ripetere il discorso sull’altro versante, quello dell’arte, motivando perché anch’essa abbia bisogno di ritornare all’incontro con la fede. Discorso, questo, che ora non possiamo fare, ma che affidiamo a due sorprendenti battute che valgono più di tante argomentazioni. La prima è di Hesse nel suo saggio su Klein e Wagner: «Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio». E la seconda è di Henry Miller nel suo libro The Wisdom of the Heart: «L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita».