IL VANGELO DI FILIPPO

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«Se dici: ‘Sono un giudeo’, nessuno si muoverà. Se dici: ‘Sono un romano’, nessuno avrà turbamento. Se dici: ‘Sono un greco’, o ‘Un barbaro’, o ‘Uno schiavo’, o ‘Un uomo libero’, nessuno sarà smosso. Se tu dici: ‘Sono un cristiano’, il [mondo] si muoverà». È questo il passo più citato del Vangelo di Filippo, un testo gnostico, teologicamente dipendente da Valentiniano, un raffinato esegeta allegorico della scuola di Alessandria d’Egitto, vissuto nel II secolo, capofila di un movimento «ereticale» contro il quale si scaglierà un grande della letteratura cristiana delle origini, Tertulliano, che comporrà un Adversus Valentinianos. Da lui apprendiamo che questo personaggio era approdato anche a Roma sotto papa Igino, attorno al 140, «sperando di ottenere l’episcopato», rimanendo però deluso. Se è lecita una memoria personale, oltre mezzo secolo fa, ebbi la fortuna di seguire le lezioni all’Università Gregoriana di Roma del maggiore studioso di questo autore, il gesuita spagnolo Antonio Orbe, che tra il 1955 e il 1966 pubblicò qualcosa come cinque volumi di Estudios valentinianos.

         Ma ritorniamo al nostro apocrifo che è ora tradotto col testo copto a fronte, in un’accuratissima edizione critica da Francesco Berno della «Sapienza» di Roma, con un’imponente introduzione e un fittissimo apparato di note. Questa strumentazione – certamente di lettura impegnativa, anche perché irta di rimandi tecnici e affidata a un dettato italiano piuttosto ramificato – è però necessaria se si vuole entrare appieno in uno scritto eterogeneo nei temi e complesso nei suoi percorsi argomentativi. Prima, però, di accennarvi, merita qualche riga anche la scoperta avventurosa di questo manoscritto.

         Esso apparve nell’inverno tra il 1945 e il 1946 nei pressi di un remoto villaggio dell’Alto Egitto, vicino alla città di Nag Hammadi (nota nell’antichità come Chenoboskion). Alcuni braccianti scoprirono in un terreno roccioso un orcio di terracotta sigillato. Apertolo, ne estrassero alcuni quaderni di papiro rilegati con copertine di cuoio e vergati in caratteri a loro ignoti, quelli copti. Il capo, un tale Muhammad Alì, se li portò a casa e anni dopo confessò candidamente che sua madre aveva usato vari fogli per accendere il loro focolare. A questo punto – come nel caso dei celebri manoscritti giudaici di Qumran la cui scoperta fu di poco posteriore – si entra in una vicenda dai contorni gialli.

         Implicato in una faida di sangue, Alì cercò di piazzare sul mercato antiquario quei quaderni disperdendoli in rivoli, con strane mediazioni: si pensi che uno di questi codici fu donato da un mecenate a Carl Gustav Jung per un suo compleanno. Alla fine, attorno al 1955, il governo egiziano riuscì a riacquistarli componendoli nel Museo Copto del Cairo: era sopravvissuta una dozzina di codici per un totale di 1130 pagine. Gli studiosi vi identificarono testi legati alla gnosi cristiana e appartenenti a generi diversi, dai vangeli alle apocalissi e a veri e propri trattati. Tra l’altro, si identificò persino un frammento della Repubblica di Platone! Nel secondo di questi codici, nelle pagine 51-86, dopo il famoso Vangelo di Tommaso (del quale, a suo tempo, abbiamo presentato l’edizione critica curata da Matteo Grosso nel 2011 per Carocci), ci si imbatte appunto nel Vangelo di Filippo. La sua è una trama, a prima vista, piuttosto sparpagliata, con «la giustapposizione di nuclei tematici e testuali trasversali all’intera opera» e col curioso innesto di intermezzi esortativi che interpellano il lettore.

         L’avvio è sorprendente, per non dire sconcertante: «Un ebreo crea ebrei e questi sono chiamati in questo modo: proseliti. Un proselito, invece, non crea proseliti…». Si tratta di una complicata metafora, sciolta da Berno sia nell’introduzione sia nel commento, usata quasi come crittogramma per illustrare il tema della «filialità» divina che è donata solo della comunità gnostica. Si tratta di un tema che si inserisce nella creazione primordiale dalla quale si dipartono le tre nature: figli, schiavi e animali. Si marca, così, una gradualità nell’umanità che ascende dallo strato misero e terrestre dei molti alla vetta della perfezione «filiale» raggiunta dai pochi privilegiati.

         Nella storia della salvezza, poi, entrano in scena più fisionomie del Cristo rivelatore, che combina in sé un corpo «psichico», cioè dotato di anima, con lo Spirito che, sulla croce, ritorna al Padre. Egli risulta dotato di una natura plurivoca, come lo è l’umanità a cui si rivolge. Anche i suoi nomi identitari sono molteplici – Gesù, Cristo, Messia, Nazareno, Pharisata – e sono destinati a mostrare le sue essenze iridescenti. La salvezza viene offerta attraverso un sistema sacramentale altrettanto plurimo e fluido: «un battesimo, un’unzione, un’eucaristia, una redenzione e una camera nuziale» (67,29-30). Su questo passo e su tutta l’impostazione sacramentale la disputa interpretativa tra gli studiosi è accesa, con incessanti zone d’ombra che anche Berno cerca di diradare.

         Pur con queste nostre note frammentarie, è evidente lo spaesamento che la lettura del testo crea quasi a ogni riga, svelando la radicale alterità rispetto ai Vangeli canonici. Il suo è un linguaggio «apocrifo» nel senso letterale del termine, ossia votato alla ricerca del «nascosto» e dell’oscuro e la sua destinazione è quella di un orizzonte elitario di eletti, «figli» destinati a comporre la vera «famiglia divina» gnostica.

GIANFRANCO RAVASI

Vangelo di Filippo, a cura di Francesco Berno, Paoline, Milano, pagg. 277, € 38,00.