«È stato giustamente detto che il Successore del primo degli Apostoli ritorna dopo venti secoli di storia lì, di dove Pietro è partito, portatore del messaggio cristiano». Così Paolo VI il 4 gennaio 1964 si congedava dalla sua sede di Roma prima di salire sull’aereo (ed era anche la prima volta che un Papa volasse) per il suo breve pellegrinaggio in Terra Santa, un viaggio storico concluso il 6 gennaio, denso di implicazioni anche ecumeniche. A seguirlo, come è noto, Giovanni Paolo II dal 20 al 26 marzo 2000, un evento che è fissato nella celebre immagine della preghiera silenziosa al Muro del Pianto, accompagnata dal gesto tradizionale dell’inserzione di un cartiglio contenente un’invocazione a Dio tra le fessure delle pietre.

         Benedetto XVII è, dunque, il terzo Pontefice romano che ritorna nella terra delle radici cristiane, attraverso un fitto itinerario che si apre ad Amman e comprende tappe al Monte Nebo, a Madaba, alla Betania transgiordanica, a Tel Aviv, Gerusalemme, Betlemme, Nazaret, con decine di visite e una trentina tra discorsi e omelie. Noi ora vorremmo solo sottolineare la dimensione interreligiosa di questo pellegrinaggio, fondandoci sul cuore del programma di viaggio, ossia Gerusalemme, la città citata 656 volte nella Bibbia, sognata dal profeta Sofonia verso la fine del VII secolo a. C. come il luogo escatologico in cui «tutti i popoli invocheranno con labbro puro il nome del Signore e lo serviranno tutti spalla a spalla» (3,9).

         Anni fa ero con un archeologo inglese davanti agli scavi dell’Ofel, il colle sul quale sorgeva la cittadella di Davide, la capitale che il celebre re d’Israele aveva strappato a una popolazione indigena, i Gebusei. Quell’archeologo, guardando i resti e i reperti, mi diceva: «Mio padre era un contadino del Lancashire; non si era mai allontanato dal suo villaggio se non per recarsi a Londra in viaggio di nozze. Eppure, quando in chiesa la domenica cantava gli inni di Sion, lo faceva con una passione per Gerusalemme quasi fosse la sua vera città e patria». Ebbene, questa emozione di un cristiano è vissuta con intensità identica o maggiore da tutte e tre le religioni monoteistiche. È per questo che da sempre Gerusalemme è come una sposa contesa, spiritualmente e materialmente. Basta solo gettare uno sguardo su una mappa dell’area antica della città. Si leggono le indicazioni topografiche – spesso distinte anche per colori – di un quartiere ebraico, di uno cristiano, di un altro musulmano e di quello armeno. Se si avanza per quelle viuzze e si entra nei luoghi sacri delle varie religioni, si sente parlare in arabo ed ebraico, in greco e armeno, in siriaco ed etiopico, in russo e inglese o in yiddish: si prega e si discute in almeno quindici lingue con sette alfabeti differenti! Ma tutti sono certi di avere un legame unico, insostituibile, inscindibile con quella città.

         Uno dei docenti della prestigiosa “École Biblique et Archéologique”, gestita dai domenicani francesi, p. Jerome Murphy O’Connor, autore di una guida archeologica di Gerusalemme, dichiarava senza esitazione: «In questa città la prudenza della ragione ha poche possibilità di prevalere sulle certezze della religione». Così, gli Ebrei non possono non risalire a Davide e fondarsi sulle pietre sacre del tempio di Salomone (anche se quelle del cosiddetto “Muro del pianto”, il “Muro Occidentale”, sono di un millennio dopo, appartenendo al tempio eretto da Erode). Quando il 7 giugno 1967 l’esercito israeliano conquistò la Gerusalemme araba, la prima corsa di un gruppo di soldati fu proprio a quel Muro per pregare! È, infatti, questo il cuore della fede e della storia di Israele. Un famoso detto rabbinico afferma che «il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio». Il poeta ebreo spagnolo Giuda Levita, che la leggenda farà morire nel 1140 calpestato dai cavalli appena giunto pellegrino a Sion, cantava: «Io amo le tue pietre che voglio baciare e saporite mi saranno le tue zolle più del miele!». Ma già il Salmista aveva esclamato: «Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion!» (Salmo 102,15).

         Elena, la madre di Costantino, era giunta qui nel 326 alla ricerca delle memorie di Gesù e in particolare della sua tomba. La pietra ribaltata del sepolcro di Cristo, ora custodita nella possente basilica crociata omonima, è il cuore della cristianità, che da allora non si è staccata più da Gerusalemme, pur sfrangiandosi in decine di comunità diverse (per i cattolici pensiamo alla presenza francescana) e non esitando a ricorrere alle Crociate. Una pietra, quella del Santo Sepolcro, che è il segno della risurrezione, il mistero centrale della fede cristiana. Ed è proprio in questo tempio mastodontico – dalla planimetria complessa per le aggiunte architettoniche e per aver inglobato in sé anche il piccolo colle del Golgota o Calvario (“cranio”) della crocifissione di Cristo – che appare in tutta la sua sconcertante asprezza la divisione tra gli stessi cristiani che si aggrappano, spesso contendendoselo, allo spazio sacro per affermare la loro identità: dai Greco-ortodossi agli Armeni, dai Latini (Francescani) ai Siro-giacobiti. Perciò, è qui che dovrà affiorare, durante la visita papale che si terrà l’ultimo giorno, il 15 maggio, anche la dimensione ecumenica del pellegrinaggio.

         Infine, anche i musulmani hanno a Gerusalemme una loro pietra fondante, quella che è protetta dalla sfolgorante cupola dorata della moschea di Omar, memoria del sacrificio di Abramo (Genesi 22), ma soprattutto dell’ascensione al cielo del Profeta Maometto, che è ricordato anche dall’altra moschea della Spianata, al-Aqsa, come si legge nel Corano: «Lode a Dio che trasportò di notte il suo Servo [Maometto] dalla moschea sacra [Mecca] alla moschea al-Aqsa [l’altra, più lontana]» (17,1). È per questo che in arabo Gerusalemme è al-Quds, cioè «la (città) santa» per eccellenza. Tre pietre, quindi, sono per le tre religioni – che pure in Abramo hanno una radice comune – segno di una presenza propria, non solo spirituale, ma anche “fisica”. Ed è ancora per questo che Gerusalemme – come un po’ tutta la Terra Santa – è oggetto di un amore non solo ideale e quelle pietre sono state striate nella loro storia secolare anche dal sangue. Si comprende, allora, perché sia stato sempre arduo trovare accordi politici o religiosi attorno a questo simbolo così “personale”. Già il Salmo 87 diceva che tutti i popoli della terra, «là, a Sion, sono nati». È paradossalmente anche per questo che è difficile rendere reale l’augurio implicito presente nel nome ebraico della città, Jerushalaim, che allude a shalom, “pace”, e che era reso esplicito dal Salmista: «Chiedete pace per Gerusalemme… sia pace nelle tue mura… per i miei fratelli e i miei amici io dirò: Su te sia pace!» (Salmo 122, 6-8).