Geniale come spesso gli accadeva, san Girolamo, il traduttore latino della Bibbia (la Vulgata), di fronte a un capolavoro assoluto e inafferrabile come il libro di Giobbe, aveva reagito così: «Spiegare Giobbe è come stringere tra le mani un’anguilla o una piccola murena: quanto più la premi, tanto più ti sfugge di mano». È per questo che l’opera è stata strattonata verso le più disparate interpretazioni, soprattutto tirandola sul ciglio dell’abisso oscuro della sofferenza. Si intuiva, però, una via di fuga, quella della pazienza e sopportazione attestata nelle due prime pagine in prosa del libro che in realtà sono solo un prologo (in cielo e in terra, come riprenderà Goethe nel Faust). Là, il sofferente, travolto da una valanga di disgrazie, schernito dalla moglie petulante, si rivolge al suo Dio con una sconcertante remissività: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il nome del Signore» (1,21).
In realtà il poema che segue è un ininterrotto urlo, scagliato contro un cielo vuoto e un Dio muto, comparato talvolta a un leopardo, a un arciere sadico, a un generale trionfatore che sfonda il cranio dei vinti e così via protestando. Un urlo vanamente tacitato dagli amici accorsi accanto a quel miserabile, ridotto su un cumulo di immondizie, come avvocati difensori di Dio, rinserrati nei loro teoremi apologetici, pronti a offrire consolazioni che Giobbe rigetta perché solo «decotti di malva». Ebbene, quel grido insonne cristallizzato in parole simile a pietre, aperto da un’automaledizione («Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: È stato concepito un maschio!» 3,3), che significato ha in un libro sacro com’è la Bibbia che pretende di essere parola di Dio?
A questo interrogativo gli esegeti hanno offerto un coro di risposte che si è pure allargato alle voci di una legione di scrittori, da Kierkegaard a Dostoevskij, dal Moby Dick di Melville a Joseph Roth fino alla sorprendente Risposta a Giobbe di Jung, in una serie infinita di riprese letterarie. Pur avendo già dedicato vari commenti, saggi e conferenze a questo personaggio e alle sue parole formulate in un ebraico incandescente e colmo di arditezze linguistiche, simboliche e teologiche (persino sul crinale tagliente della blasfemia), e avendo ipotizzato un’interpretazione che trasferisce l’asse tematico dall’antropologia alla figura di Dio, devo però confessare che l’anguilla di Giobbe alla fine è sfuggita di mano anche a me.
D’altronde questo è accaduto anche ai tanti esegeti e agli scrittori, convinti come Lamartine che quella di Giobbe fosse «non la voce di un uomo, ma la voce di un tempo…, il primo e ultimo vagito dell’anima, anzi, di ogni anima». Alla fine, però, nelle loro pagine di commento quella voce si deformava o diventava sfuggente, perché sbagliata era la chiave ermeneutica generale adottata con effetti persino esilaranti (sarebbe come scegliere la chiave di basso nell’esecuzione di una partitura composta nel sol dal violino). Eppure l’insonne voce di Giobbe continua a risuonare. A titolo di esempio, pensiamo all’imprescindibile Kafka il cui spartito giobbico è stato interpretato da un personaggio originale, l’ebrea tedesca Margarete Susman (1872-1966), in un mini-saggio più volte riedito e ora tradotto e riproposto da Guido Ghia. Già nel 1999 la Giuntina aveva offerto la versione del Libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico della stessa autrice, la cui cecità finale era stata cantata da Paul Celan in modo emozionante come reazione all’orrore della shoah e del nichilismo che aveva avvinghiato il mondo.
Kafka si riveste dei cenci spinosi e pungenti delle domande di Giobbe senza, però, scagliarle direttamente contro Dio interpellandolo. Le lascia serpeggiare per terra e in cielo in una contesa indiretta con l’Onnipotente. Il genere letterario del rîb, cioè della lite processuale contro Dio, è ben codificato già nella Bibbia, e l’Accusato convocato in causa può anche rimanere in contumacia, come appunto accade secondo il grande praghese il cui pensiero è, tuttavia, più complesso, e lo attestano le brevi pagine della Susman. Da esse estraggo solo la finale sorprendente: «Che Kafka, prima di morire, abbia pregato gli amici di bruciare tutte le sue opere dimostra che esse non erano scritte per gli uomini, ma solo per l’occhio di Dio».
Prima di Kafka a interpellare Giobbe, per una sorta di affinità elettiva è stato Leopardi, che Carducci non aveva esitato a definire «il Job del pensiero italiano». A ricomporre questo legame, ma anche a dire tanto sulla tormentata religiosità del poeta di Recanati, è Loretta Marcon che ha alle spalle studi filosofici, teologici e letterari. La sua è un’ampia trattazione che si allarga a ventaglio lungo i percorsi maggiori dell’opera biblica, illustrata attraverso gli echi impressi nell’anima di Leopardi che, tra l’altro, s’era impegnato persino a imparare l’ebraico, tanto genuina era la sua passione biblica. L’idea globale che si ricava dall’analisi di questa studiosa – intarsiata incessantemente da citazioni e rimandi testuali e indiretti, attingendo anche alla folta schiera dei commentatori – è la sovrimpressione autobiografica implicita che il poeta di Recanati opera sul personaggio biblico. Si crea, così, un esito speculare, per cui scopriamo il volto di Leopardi plasmato con versi e colori giobbici.
A parte ricordiamo che la stessa Marcon dedica una seconda sezione del suo saggio, frutto di un altro studio, alla consonanza – a nostro avviso ancor più intensa – del Recanatese con Qohelet, il sapiente in crisi di sapienza e, quindi, affacciato sull’indecifrabilità dell’esistere umano e dello stesso agire di Dio. Qui il parallelo tra i due è ancor più cogente, anche se Leopardi versa dosi massicce del suo pessimismo sulla comune esperienza, sua e di Qohelet, riguardo all’«infinita vanità del tutto» (così in A se stesso), che diventa «infinita vanità del vero» nello Zibaldone. Concludiamo questo excursus sul Giobbe letterario con la voce contemporanea di un filosofo che in questo orizzonte, sia teorico sia esegetico-biblico, si è sempre mosso con vivissima originalità e finezza ermeneutica. Si tratta di Salvatore Natoli che, oseremmo dire, ora spreme in poche pagine una sua lunga e profonda ricerca.
In un dittico essenziale e con tocchi di pennello quasi impressionistici, egli accosta l’«uomo tragico» della classicità greca, che ha nell’epos di Edipo uno dei momenti più alti ed enigmatici, all’«uomo biblico» che ha appunto in Giobbe il suo emblema più forte (senza ignorare la riflessione di Qohelet). Alla «metafisica del tragico», tipica della grecità, subentra nell’ebraismo la «teologia del patto». Per questo il dramma di Giobbe è diverso perché dal piano antropologico si trasferisce al livello teologico: «La questione centrale del libro di Giobbe non è il suo dolore – così magnificamente rappresentato e ragione della sua celebrità letteraria – ma la giustizia di Dio». Si comprende, allora, che la provocante richiesta di convocazione del supremo Accusato da parte di Giobbe non è per una mera imputazione-condanna di Dio.
Scrive in modo folgorante Natoli, cogliendo (a nostro avviso) il nodo più stretto per impedire all’«anguilla Giobbe» di sfuggire al suo significato forse più autentico: «Giobbe sa che Dio è fedele e se lo chiama in causa non lo fa per condannarlo, ma perché non lo vuole perdere. Infatti, che Dio mai sarebbe un Dio che non sta ai patti? Ma se Dio cade, che ne è dello stesso Giobbe?».
GIANFRANCO RAVASI
Margarete Susman, Giobbe e Kafka, Morcelliana, Brescia, pagg. 63, € 7,00.
Loretta Marcon, Leopardi, Giobbe, Qohélet, Antonio Stango ed., Arezzo, pagg. 237, € 15,00.
Salvatore Natoli, Uomo tragico Uomo biblico, Morcelliana, Brescia, pagg. 71, € 8,50.
Pubblicato col titolo: Pazienti nell’ascoltare la pazienza di Giobbe, su IlSole24ORE, n. 46 (16/02/2020).