«Gli misero alla morte al capo, nella sala dove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de’ Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’animo di dolore a ognuno che quivi guardava». A descrivere questa scena con la salma di Raffaello, deceduto il 6 aprile 1520, esposta al pubblico in Vaticano, è Giorgio Vasari nelle sue Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue insino a’ nostri tempi, trent’anni dopo quell’evento inatteso che aveva sconvolto un po’ tutti, considerato anche il fatto che il pittore era solo trentasettenne.
È legittimo, in mezzo all’imponente commemorazione storico-critica dedicata quest’anno al grande Urbinate, delineare un semplice asterisco di indole «teologica». Sì, perché Raffaello fu un costante interprete di soggetti religiosi in quasi tutta la sua opera. Si pensi solo alla teologia eucaristica del Miracolo di Bolsena e della Disputa del Sacramento, all’iconografia biblica della «Stanza di Eliodoro» o delle «Logge Vaticane». In quest’ultimo caso, attraverso 52 riquadri, quasi fossero altrettante pagine, si ha la «Bibbia di Raffaello», originale imitazione della medievale Biblia pauperum, non più destinata ai semplici fedeli ma alla corte pontificia.
Le pagine bibliche, dalla creazione e dai patriarchi, passando attraverso Mosè – le cui vicende dell’Esodo biblico occupano ben otto scene – Giosuè, Davide e Salomone, per giungere a Gesù, si cristallizzano in questi riquadri costituendo appunto un’affascinante Bibbia a colori che nei secoli successivi è stata ininterrottamente riprodotta e imitata. Facile è non solo per un biblista riconoscere la matrice testuale, ad esempio, di un «Sogno di Giacobbe», di un «Isacco e Giacobbe», di un «Mosè salvato dalle acque», di un «Passaggio del Giordano», e così via.
Noi, però, ritorneremo a quella sala-atelier ove era esposto il corpo di Raffaello, destinato poi ad essere inumato al Pantheon e, per rappresentare questo suo ininterrotto confronto col testo sacro, sceglieremo come emblema proprio quella tavola della Trasfigurazione che era stata collocata alle sue spalle e che era considerata quasi come il suo lascito estremo. Ora essa è collocata nella cosiddetta «Sala di Raffaello», l’VIII della Pinacoteca Vaticana, attorniata da altri due famosi capolavori, la Madonna di Foligno e la Pala Oddi o Incoronazione della Vergine, oltre alla serie dei dieci arazzi i cui cartoni erano stati eseguiti dall’artista per volere di papa Leone X per essere inizialmente collocati nella Cappella Sistina.
La pala della Trasfigurazione è una tavola a olio di poco più di 4 metri d’altezza e lunga quasi 3, ed era stata pensata come dono da inviare alla cattedrale francese di Narbonne, sede episcopale titolare di un cugino del pontefice di allora Leone X, il cardinale Giulio de’ Medici che sarebbe divenuto, un paio di anni dopo la morte del cugino, nel 1523, lui stesso papa col nome di Clemente VII. L’Urbinate aveva composto la scena su due registri, seguendo il testo evangelico nella sua struttura a dittico. I tre evangelisti Sinottici – Matteo (17,1-20), Marco (9,2-29) e Luca (9,28-43) – narrano, infatti, sia pure da angolature redazionali differenti, sia la «cristofania» della Trasfigurazione su un monte innominato, identificato nel Tabor da un’antica tradizione secolare, sia la guarigione di un ragazzo epilettico ai piedi di quel monte.
Nella sua pala Raffaello alla luminosa «metamorfosi» (tale è la parola originaria greca per indicare la Trasfigurazione) di Cristo congiunge una vicenda drammatica come quella del ragazzo epilettico, la cui sindrome era accuratamente delineata dagli evangelisti: «Uno spirito muto, dovunque lo afferrava, lo gettava a terra ed egli schiumava, digrignava i denti e si irrigidiva… Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo che, piombato a terra, si rotolava schiumando». Anzi, suo padre confessava a Gesù che quello spirito maligno – secondo l’antica concezione che considerava alcune malattie come effetto di possessione diabolica – «spesso lo buttava nel fuoco e nell'acqua per ucciderlo» (Marco 9,18-22).
Due piattaforme sceniche sovrapposte animano, dunque, il dipinto di Raffaello. Esse, però, sono impostate prospetticamente a diversa gradazione. La Trasfigurazione avviene lassù, avvolta in un nimbo di luce trascendente, ove Cristo aleggia sospeso con le braccia aperte a croce, accompagnato ai bordi della mandorla luminosa da Mosè, simbolo della Legge, e da Elia, emblema della profezia, protesi in contemplazione, mentre ai piedi di Gesù, sul terreno della cima del monte, accecati e storditi sono accasciati a terra i tre apostoli testimoni Pietro, Giacomo e Giovanni. Questa scena alta e sublime dovrebbe essere ammirata a distanza, come se fosse un’epifania che da lontano, dall’alto, quasi dall’infinito, si apre allo sguardo della contemplazione mistica.
Una visione ravvicinata è, invece, richiesta dalla scena inferiore, mossa, tormentata, agitata da movimenti fortemente “carnali”: basti solo guardare il corpo in torsione e gli occhi sbarrati e stravolti del ragazzo epilettico. Eppure alcune mani si levano verso l’alto ove risplende circonfuso di luce il Cristo. Anzi, il giovane con le sue braccia, il destro teso verso il Cristo trasfigurato e il sinistro rivolto a terra, crea una sorta di croce a cui la malattia lo inchioda. Raffaello, in tal modo, va oltre la lettera del racconto evangelico che suppone una sequenza temporale staccata tra i due eventi, e vede tra di essi un rapporto causale di natura squisitamente teologica.
È, infatti, dal Cristo glorioso, centro della storia della salvezza, che fluisce la liberazione dal male. Per questo egli unisce trascendenza e immanenza, eternità e storia, luce e oscurità, grazia e sofferenza, assoluto e caducità, divinità e umanità. Si configura, così, una lezione teologica spoglia, però, di ogni noia accademica, aliena a ogni disquisizione teorica, lontana dalla catechesi didascalica. Infine, tra le tante memorie che le due scene suscitano con le diverse figure che le popolano (almeno 24 sono i personaggi che vengono introdotti), c’è un ricordo storico ad assegnare una connotazione speciale a questa pala. La tavola, infatti, non raggiunse mai la cattedrale di Narbonne a cui era destinata, ma rimase a Roma, nell’appartamento del cardinale Giulio de’ Medici nel Palazzo della Cancelleria che si trova lungo l’attuale Corso Vittorio Emanuele II e che è stata recentemente riportata al suo splendore. Solo in seguito fu trasferita nella chiesa di S. Pietro in Montorio sul Gianicolo per approdare infine ai Musei Vaticani. Ma noi la immaginiamo ancora come suggello al breve ma straordinario percorso artistico e biografico di Raffaello, seguendo proprio la citata testimonianza di Vasari.
Abbiamo sottolineato che questo itinerario ebbe come ideale lessico iconografico la Bibbia. Ma, come è noto, l’Urbinate si inoltrò anche lungo altri sentieri. E, in appendice, vorrei aggiungere un ricordo personale significativo. Per anni ho avuto la fortuna di vivere nello stesso palazzo della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana ove si custodiva un imponente disegno a carboncino e biacca di ben 2,75 x 7,95 metri: era il cartone preparatorio che Raffaello aveva elaborato di suo pugno per abbozzare l’affresco della Scuola di Atene che avrebbe poi dipinto in Vaticano nella cosiddetta «Stanza della Segnatura», cartone che è stato recentemente restaurato e riallestito. Come recita il titolo, l’opera rivela un Raffaello anche filosofo che convocava in quel dipinto Platone e Aristotele, Socrate, Epicuro, Eraclito e Pitagora, persino Diogene e Alcibiade, ma anche Averroè e Zoroastro. Fede e ragione s’intrecciavano, allora, nella cultura, nella società e nella stessa mente e nel cuore di questo artista supremo.
GIANFRANCO RAVASI
Pubblicato su IlSole24ORE (29/03/2020).