«L’uomo è visibilmente fatto per pensare. È tutta la sua dignità e tutto il suo mestiere. E tutto il suo dovere è pensare come si deve». È spontaneo ricorrere a uno dei più noti Pensieri di Pascal, quando ci si inoltra in quella sorta di oceano testuale che è la teologia e la filosofia medievale. Là si vede e si tocca quasi con mano – contro ogni tentazione della riflessione frou frou o del pensiero “debole – che cosa significhi il vero pensare, con fatica, sì, con rigore, ma anche con un respiro da altura. Aveva, poi, ancora ragione Pascal quando continuava affermando che «lavorare a pensare bene è il principio della morale». Quel pensiero, infatti, non rimane sospeso in un limbo aereo, irradiato di luce, ma remoto rispetto all’urgenza (e persino all’urlo) del reale; non è mai un invito a decollare dall’orizzonte storico ed etico per migrare verso cieli mitici o mistici. È, invece, una vera e propria fiaccola che illumina e dà senso ai piedi che camminano nel terreno spesso arido, polveroso e sassoso dell’esistenza.

            Ebbene, nell’immensa distesa della bibliografia riguardante il pensiero medievale (e per fortuna sono solo alcuni, rimasti ancorati a un paleolitico intellettuale, a immaginare quell’epoca come “buia” e retrograda), proviamo ad elencare – in modo soltanto selettivo ed emblematico e quindi non coerente e sistematico – alcune rotte di navigazione possibili in quel grande mare di scritti e riflessioni. Partiamo con una celebrazione: settecento anni fa, nel 1308, moriva, poco più che quarantenne, Giovanni Duns Scoto, contemporaneo quindi di Dante, così sofisticato nella sua elaborazione teorica da meritarsi il titolo di Dottore Sottile, un epiteto ai nostri giorni forse un po’ svalutato da qualche applicazione più contingente. Questo francescano, docente proprio in quello Studio parigino che aveva visto una trentina d’anni prima brillare l’astro di Tommaso d’Aquino, aveva infatti elaborato un suo modello epistemologico di altissima qualità e di nuova impostazione, capace di generare una vera e propria scuola che avrebbe attraversato i secoli.

            Il suo Trattato sul primo principio, con testo latino a fronte a cura di Pasquale Porro, appare ora presso Bompiani e impone al lettore un vigoroso esercizio mentale attorno a una complessa prova dell’esistenza di Dio, fondata sul concetto di ente e di “ordine essenziale”, articolato in ben sei tipologie, dalle quali egli estrae una trilogia: causalità efficiente, causalità finale ed eminenza permettono di affermare la possibilità di un “primo principio”, incausato e incausabile. Ma per muoversi all’interno del pianeta logico scotiano è indispensabile ricorrere alla solenne monografia che uno dei massimi medievisti del secolo scorso (è morto nel 1978 a 94 anni), Étienne Gilson, ha dedicato al teologo scozzese, al quale lo studioso francese aveva consacrato quasi un quarantennio della sua lunga esistenza. L’opera, “meandrica”, come la definisce Costante Marabelli nella sua premessa, perlustra tutte le regioni metafisiche e teologiche, gnoseologiche ed etiche di una ricerca potente, tentando persino alla fine di redigere un alphabetum Scoti in 78 asserti, imitando una prassi codificata dalla tradizione accademica scotista (Étienne Gilson, Giovanni Duns Scoto, Jaca Book, pagg. LVI-734).

            Duns Scoto, teologo e filosofo accompagnato da un profilo del suo esegeta Gilson, appare anche nella galleria di Figure medievali della teologia, proposte da uno dei nostri maggiori studiosi del pensiero di quell’epoca, Inos Biffi, del quale la Jaca Book sta pubblicando l’Opera omnia (pagg. 518). In questa sequenza molto variegata non appaiono tanto i personaggi in sé considerati, quanto piuttosto le immagini, le “figure” teoriche che essi incarnano, a partire ad esempio da s. Bonaventura e la sua visione «della realtà, del desiderio e della precarietà della teologia», per procedere lungo sentieri spesso poco praticati ove stazionano però teologi dalla fibra ardente e creativa, come Alessandro di Hales, Oddone Rigaldo, Guglielmo di Meliton, Rolando di Cremona, Riccardo Fishacre, Roberto Kilwardby  e i più noti Guglielmo di Auxerre e Alberto Magno. Biffi è attento a segnalare che l’arditezza intellettuale di questi autori non si esprime solo lungo i tracciati del teologare “scientifico”, ma anche secondo il sapere “affettivo”, dotato di una sua dignità, di una grammatica espressiva e di una simbolica che ha nell’estetica una sua stupenda efflorescenza (e qui si capisce perché questa teologia abbia generato anche Dante).

            In questa luce si deve leggere dello stesso Biffi un delizioso dittico, più divulgativo, dedicato a Bernardo e Tommaso (Jaca Book), un ammirato e stupefatto abbozzo di un «un duplice vertice sublime di unica fiamma», per usare la definizione che Fogazzaro aveva riservato a Manzoni e a Rosmini e che funge da sottotitolo al volume. In questa linea si erano mossi anche gli autori spirituali, come i Padri vallombrosani, fondati da s. Giovanni Gualberto, monaco di San Miniato a Firenze (XI sec.). A farli emergere dall’ombra del loro monastero è Cecilia Falchini che ne raccoglie sia i testi normativi, sia le testimonianze documentarie e letterarie, sia le personalità più suggestive sotto il titolo Nel solco dell’evangelo (Qiqajon, Bose, pagg. 372). Ma in quella stessa epoca – dal X al XII secolo – si assisteva anche alla Fioritura della dialettica (Jaca Book, pagg. 622), ossia all’elaborazione di un’intelligenza della fede con una nuova strumentazione approntata e collaudata da personalità dal forte spessore intellettuale come Pier Damiani, Anselmo d’Aosta, Abelardo e le due “scuole” di Chartres e di San Vittore. Nove studiosi si affaticano attorno agli scritti che contrassegnano una stagione che sarà considerata come un vero e proprio “rinascimento” per la teologia.

            Questo fervore speculativo non impediva, però, che la Bibbia continuasse a occupare il suo posto privilegiato di stella polare. Per comprendere questa presenza ci accontenteremo di segnalare – a conclusione del nostro viaggio testuale – due opere rilevanti. La prima è ormai un piccolo classico, sempre riedito, Lo studio della Bibbia nel Medioevo dell’inglese Beryl Smalley, morto nel 1984 (Dehoniane), testo pubblicato in italiano a cura di Gian Luca Potestà. L’indagine dello studioso della Bodleian Library si pone in contrappunto col monumento per eccellenza in questo genere di ricerche, i quattro tomi dell’Exégèse médiévale del celebre Henri de Lubac. A livello più analitico, con una dozzina di saggi critici molto accurati, simili a scavi letterari minuziosi, ecco infine Michael M. Gorman, con la sua raccolta The Study of the Bible in the Early Middle Ages (Sismel – Edizioni del Galluzzo, Firenze).