L’arte di trasmettere

Francia contro Galles, finale del Sei Nazioni di rugby 2017 nello Stade de France, un interminabile match di quasi cento minuti, venti in più del tempo regolamentare: è questa, a metà libro, la scena simbolica che Nathalie Sarthou-Lajus, professoressa di filosofia, assume a paradigma per la sua deliziosa lezione sull’Arte di trasmettere, accompagnata nella versione italiana da un’appassionata prefazione di Emanuele Trevi. Anzi, quel gioco così frenetico si configura ai suoi occhi in una metafora del parto, l’atto principe della trasmissione perché introduce e accompagna nella vita una creatura. Per lei, docente, la parabola sportiva in genere – per altro cara all’apostolo Paolo («Ho terminato la corsa, ho conservato la fede», confida nel suo testamento ideale indirizzato al discepolo Timoteo) – diventa la rappresentazione dell’autentico “insegnare”.

Già Montaigne era convinto che non basta arredare la mente dell’alunno di nozioni ma è necessario dotarlo della capacità di comprendere e giudicare. Anche Roland Barthes era esplicito ricorrendo a un apparente paradosso: «Vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa: questo si chiama cercare». È nella stessa linea che si muove Nathalie evocando vari simboli ed evitando il ricorso a regole per illustrare la sua tesi. Ad esempio, rilevante è l’immagine della “soglia”: la lezione è finita, l’educatore ha abbandonato la sua posizione sovrastante, sostenuta dal suo sapere, si ferma sul varco della porta e intercetta il passaggio degli alunni, raccoglie sguardi, parole, soste. «Sbarazzàti finalmente da qualsiasi desiderio pedagogico, da ogni volontà di informare, di spiegare o di convincere, scambiamo un’ultima parola, una parola per la strada, per accompagnare la partenza e andare al di là della separazione». Il trasmettere spirituale non è un’occupazione delle stanze della mente e del cuore dell’altro, ma è un incontrarsi sulla soglia, luogo comune a entrambi, per proseguire ciascuno per la propria strada, ma sostenuto dalla parola dell’altro, dal suo sguardo.

È un po’ ciò che fa l’angelo Gabriele nell’annuncio a Maria, la futura madre di Gesù: come suggerisce un altro filosofo francese, Michel Serres, egli passa nella vita di quella donna, la orienta verso una meta inattesa, appare e scompare. Per questo l’autrice ricorre a un vocabolo francese che ai nostri giorni ha acquistato una connotazione specifica col transito dei rifugiati oltre la catena delle Alpi e la demarcazione della frontiera con la Francia: il passeur è il traghettatore che non ha meramente la funzione di trasferire merce intellettuale da una mente all’altra, ma «fa passare qualcosa di sé all’altro». Penso che molti nella loro esistenza abbiano avuto la fortuna di incontrare una simile figura che forse nella nostra quotidianità attuale è lontana e persino estinta, eppure rimane con noi e in noi, proprio come l’angelo Gabriele, con quell’impronta che ha mutato la nostra storia.

Sarthou-Lajus, sempre per esemplificare l’atto alto della trasmissione, propone altri due approcci curiosi, il cucinare e il raccontare, che hanno per altro un rilievo costante in tutte le civiltà, compresa la nostra così sgangherata. Spesso (ma purtroppo oggi sempre meno) le due azioni sono connesse: si racconta pranzando insieme (non brutalmente mangiando). Confessa Nathalie: «Ho imparato tante cose nelle cucine quanto nelle biblioteche». Il suo testo è intessuto infatti anche di menzioni di romanzi, oltre che di memorie autobiografiche. E continua: «Ben prima dell’invenzione della scrittura, gli uomini si sono radunati attorno a una tavola o a un fuoco, per raccontare storie che si sono così trasmesse di generazione in generazione». Bastino solo due esempi biblici. Il banchetto pasquale ebraico, memoria della liberazione dall’oppressione faraonica narrata dal padre al figlio, e l’ultima cena di Gesù che l’evangelista Giovanni accompagna coi più lunghi e intensi discorsi di Cristo.

Ma per stare ancora al tema della trasmissione, non si può ignorare che la struttura fondamentale della Chiesa si regge sulla “tradizione”, che non è una folcloristica evocazione di dati, riti e miti, bensì la consegna vivente di generazione in generazione di un messaggio e di una scelta di vita. Anche in questo caso sono sufficienti due attestazioni. Nell’Antico Testamento, ecco il cantore del Salmo 78: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato, non lo terremo nascosto ai nostri figli... L’insegnamento e la legge il Signore ha comandato che i nostri padri la facessero conoscere ai loro figli perché li conosca la generazione futura e i figli che nasceranno si alzeranno a raccontarli ai loro figli». La genealogia biologica si trasforma in una trasmissione spirituale vivente.

E nel Nuovo Testamento è la parádosis, la “tradizione” che regge il legame tra le diverse comunità e il futuro, in una sorta di fiume ininterrotto, come confessa san Paolo ai cristiani di Corinto: «A voi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto, cioè: Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e apparve...». La trasmissione è, quindi, un atto di vita, di fede, di autentica cultura, è una generazione feconda e non un trasferimento di dati, è un cercare insieme, pur rimanendo su strade parallele o divaricate, legati però insieme dal filo d’oro dello sguardo, della parola, del pensiero iniziale. L’implicito prevale in questo caso sull’esplicito e il non detto può essere colmo di contenuto più della massa delle parole pronunciate. È significativo che nell’esergo della sua opera l’autrice abbia citato uno dei Fogli di Hypnos (1946) del poeta simbolista francese René Char: «Perché un’eredità sia realmente grande, occorre che la mano del defunto non si veda» (n. 166).

GIANFRANCO RAVASI

Nathalie Sarthou-Lajus, L’arte di trasmettere, prefazione di Emanuele Trevi, Qiqajon, Bose (Biella), pagg. 117, € 10,00.

Pubblicato col titolo: Insegnare è dare luce a una nuova vita, su IlSole24ORE, n. 89 (31/03/2019).