TEMPO DI APOCALISSE

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«Il quinto angelo suonò la tromba... e gli fu consegnata la chiave del pozzo dell’Abisso. Egli lo aprì e dal pozzo salì un fumo come quello di un enorme camino, capace di oscurare sole e aria. Dal fumo uscirono sulla terra cavallette alle quali fu concesso un potere analogo a quello degli scorpioni della terra. Fu detto loro di non devastare l’erba della terra né gli arbusti e gli alberi, ma soltanto gli uomini senza il sigillo di Dio sulla fronte. Ma fu concesso loro non di ucciderli, ma solo di tormentarli per cinque mesi con un tormento simile a quello dello scorpione quando punge un uomo». Sono alcuni versetti (9,1-5) dell’Apocalisse neotestamentaria. È la catastrofe che segue lo squillo del quinto dei sette trombettieri angelici: dal pozzo infernale, simile a un vaso di Pandora, quel suono fa emergere un inquinamento atmosferico e una pandemia, i cui virus sono comparati alla tradizionale piaga dell’agricoltura, quella delle cavallette, non più destinata ai vegetali ma pronta a infierire sull’umanità peccatrice.

Non è mancato, in questi mesi di coronavirus, qualche sparuto ma bellicoso fondamentalista religioso che ha applicato una pagina così incandescente modulandola sulla teoria mai stinta né estinta della retribuzione, retta dal binomio delitto-castigo. Invano da tempo l’esegesi corretta cerca di schiodare dalle menti questa ermeneutica di un libro biblico che, sotto il rivestimento fosforescente dei suoi simboli cosmici, zoomorfi, cromatici, teratomorfici, somatici, sociali, propone un’ermeneutica della storia umana, certamente sgangherata e talora tragica, ma la cui corsa non è verso l’Abisso, pur spalancato, bensì alla meta luminosa di «un cielo nuovo e una terra nuova». In essa è insediata una «città santa, la Gerusalemme nuova, discesa dal cielo» (21,1-2) nelle cui case e vie non si aggirano più quei lugubri cittadini che abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi giorni: «Morte, Lutto, Lamento, Affanno». Ci sarà, infine, un Dio che passerà «tergendo ogni lacrima dai loro occhi» (21,4).

È facile comprendere che un’opera così provocatoria ed emozionante abbia generato una sterminata coreografia artistica, letteraria, musicale e persino cinematografica (chi non conosce Apocalypse now o Il settimo sigillo?), oltre ovviamente a un numero imponente di commenti (in questo s’era cimentato persino Isaac Newton con una sua libera esegesi fieramente antiromano-cattolica). Ora è la volta di uno studioso milanese, docente della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e a quella di Lugano, Franco Manzi. Il suo, in verità, non è un commentario ma un saggio sintetico, posto all’insegna di una triade emblematica presente nel testo sacro, Il Cavaliere, l’Amata e Satana, dotato di una mappa affidata a quattro (più uno) «sentieri» interpretativi, simili a punti cardinali. L’ultimo è, in realtà, una sorta di survey globale, un «filo d’Arianna» che permette di ricostruire sinteticamente lo spartito strutturale dell’opera.

         Questo progetto, formulato in un linguaggio piano, permette di percorrere il terreno accidentato, tormentato e anche affascinante di quei 22 capitoli, non smarrendosi in deviazioni o vicoli ciechi. Si parte squadernando l’alfabeto simbolico a cui sopra accennavamo, un vero e proprio giardino ove allo sfolgorare di alcune immagini gloriose si accompagnano i terrificanti segni maligni alla Hieronymus Bosch: basterebbe solo inseguire i quattro cavalli misteriosi coi rispettivi cavalieri, dal bianco col Cristo risorto che lo cavalca, al rosso guidato dalla Guerra, dal nero retto dall’Ingiustizia fino al verdastro sul quale incede possente la Morte (6,1-8). Questo itinerario è destinato a introdurre il lettore nel cuore dell’Apocalisse, che è una «rivelazione», come dice il termine greco. Anzi, essa si autodefinisce come una «profezia», ossia la decifrazione di un senso celato all’interno del fluire frenetico della storia, è un «discernimento» che vaglia il groviglio degli eventi, estraendone un senso e un fine più che una fine.

         Ora, nel grembo della storia si assiste a un parto trascendente e glorioso che ha il suo apice nel c. 12 quando la Donna, che è il popolo di Dio, genera il «Cristo totale», duramente ma vanamente aggredito dal drago satanico dissacratore. Ormai sorge l’alba del nuovo mondo la cui sinfonia è intonata nelle pagine finali. Ad esse ci siamo già riferiti: si leva solenne la figura del Cristo vincitore a cui è associata la Chiesa. Quello che è stato «un viaggio nella notte» si trasforma in un’epopea di luce, per cui – come ribadiva Tarkovskij che pensava a un film – l’Apocalisse ha il suo picco non nella punizione ma nella speranza, divenendo un «racconto del nostro destino» non catastrofico ma salvifico.

         È noto che il genere letterario apocalittico è stato un modulo letterario ampiamente attestato nell’arco storico che va dal IV secolo a.C. al II secolo d.C., un genere molto fecondo in ambito giudaico e cristiano. Luca Arcari, docente alla «Federico II» di Napoli, si muove in un territorio così polimorfo, mobile, intriso di materiali eterogenei, avvolto in nebule non agevolmente diradabili, con una straordinaria competenza, offrendo agli stessi studiosi di quegli ambiti una bussola specifica. L’editore romano Carocci – che si rivela sempre più benemerito con la qualità delle sue pubblicazioni, aperte anche alla letteratura religiosa – ospita nella più importante delle sue collane, «Frecce», una particolare disamina di questo orizzonte apocalittico secondo un percorso trasversale, basato sulla categoria «visione».

         Operazione non facile, non solo per la fluidità del territorio apocalittico sopra evocato, ma anche per la stessa consistenza tutt’altro che rigorosa e strutturale della visione che è spesso simile a una finestra affacciata sull’oltremondo o a una feritoia che si apre su luoghi e spazi immaginari o a una scansione di tempi oscillanti tra primordi e futuro. La prospettiva adottata per l’analisi è molto complessa, per altro affidata a un discorso multidisciplinare e quindi a un dettato che si segue con un certo affanno: in pratica si cerca di individuare le transizioni tra testo e realtà e viceversa. Si tratta di una trama di relazioni che esigono una puntuale conoscenza dei contesti storici, delle fisionomie letterarie, dei fenomeni culturali e religiosi, posti in contrappunto con le esperienze, le emozioni, le attese.

         Come Arcari scrive fin dalle prime righe, il suo programma è quello di filtrare i contenuti degli scritti «visionari» apocalittici – che, per altro, costituiscono un bagaglio rilevante di testi – quasi fossero espressioni di «esperienze psicotrope, interpretate come di contatto diretto col divino», cristallizzate in narrazioni, «specchi ancorché opachi o deformati, di azioni riconducibili alla dimensione della vita vissuta». Detto in altri termini, non siamo in presenza di una lettura fenomenica dei molteplici scritti apocalittici, ma del tentativo di ritrovarne un palinsesto comune capace di aggregare la varietà delle concezioni e delle impostazioni gnoseologiche ed esperienziali che li sostanziano. A questa operazione piuttosto delicata e minuziosa – che non è ovviamente possibile qui esemplificare – sono perciò invitati a partecipare e a fruirne non solo esegeti o storici della cultura ma anche coloro che vagliano i fenomeni antropologici e psicologici dell’esperienza umana e quel ventaglio mirabile di simboli, segni cifrati, attori che popolano l’attività visionaria.

GIANFRANCO RAVASI

Franco Manzi, Il Cavaliere, l’Amata e Satana. Sentieri odierni del vento nell’Apocalisse, Queriniana, Brescia, pagg. 274, € 20,00.

Luca Arcari, Vedere Dio. Le apocalissi giudaiche e protocristiane (IV sec. a.C. – II sec. d.C.), Carocci, Roma, pagg. 442, € 39,00.

Pubblicato col titolo: Futuro apocalittico, sfolgorante di luce, su IlSole24ORE, n. 108 (19/04/2020).