VOCI DI DONNE

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«La privazione è un campo così fertile e abbondante di ogni sorta di miserie che i suoi prodotti sono infiniti e chi volesse parlare di tutti i frutti amari che fa mangiare alle donne comincerebbe un lavoro che non potrebbe mai terminare». Così scriveva nel Seicento francese una rappresentante del beau sexe (o semplicemente sexe), come allora erano denominate le donne. Una teologa milanese, Maria Pia Ghielmi, è andata a scovare nei polverosi archivi della storia il Traité de la morale e de la politique di Gabrielle Suchon, nata in Borgogna nel 1632, vittima forse di una claustrazione forzata da cui pare si sia liberata, vissuta in solitudine a Digione e morta nel 1703, al cui funerale assistettero solo il sacrestano e un domestico.

         Tradotto per la prima volta in italiano, il trattato, pur essendo redatto secondo i canoni scolastici tradizionali e appellando ai riferimenti biblici, patristici e classici, com’era d’uso nel genere letterario in questione, si rivela dirompente nella sua tripartizione scandita da una triplice «privazione» a cui è votata la donna nella società del tempo. La prima negazione è quella della libertà, dono divino elargito a tutte le creature umane e surrettiziamente vietato al ceto femminile che, così, non gode dello statuto di persona autonoma rispetto ai maschi. Ne consegue una seconda amputazione nella dignità, quella del sapere, della science, ossia la conoscenza scientifica e teologica. Eppure anche le donne sono dotate di ragione e del battesimo che le rende ugualmente figlie di Dio. La perdita di questo diritto inalienabile fa sì che l’ignoranza le faccia cadere in quei vizi come la maldicenza, la vanità, la cattiveria, l’avarizia, che gli uomini usano strumentalmente a loro vantaggio come grimaldello per il disprezzo e la prevaricazione nei confronti del mondo femminile.

         Infine, il corollario più pesante a livello sociale, l’assenza di autorità e quindi di potere i cui meccanismi perversi sono illustrati anche in ambito ecclesiale. Infatti, se è vero che la donna è sottomessa a livello politico e domestico sotto l’egida patriarcale, è altrettanto vero che la Chiesa si accorda «con la politica nel sancire saldamente la dipendenza delle donne», impedendo loro l’istruzione teologica, relegandole nel devozionalismo e sottoponendole alla direzione spirituale maschile e alla confessione che viene vissuta in modo penoso per la vergogna di svelare a sacerdoti maschi le proprie debolezze. In quest’ultimo ambito Suchon si rivela cauta e persino tortuosa per evitare interventi censori, sviluppando con realismo e senza illusioni le sue aspirazioni.

         Quest’opera è ampiamente inquadrata dalla curatrice nel Seicento francese che, per altri versi, era ricco di fermenti: si pensi solo ai salotti letterari e alle «Preziose», divenute celebri a causa di Molière che però le aveva connotate negativamente, o anche all’ingresso di sostenitori della filosofia dell’uguaglianza. Al Traité merita, però, di essere allegata una sorta di appendice integrativa attraverso un altro scritto suggestivo di Gabrielle Suchon, dedicato al celibato volontario, edito a Parigi nel 1700. Non si tratta della scelta monacale, pur sempre sottoposta a superiori ecclesiastici maschi e senza beni personali, ma di una condizione «neutra» di indipendenza dall’obbedienza ai mariti, dall’educazione dei figli, dal regime domestico, così da padroneggiare se stesse e la propria giornata. Certo, può avere anche un profilo religioso con «le dolcezze della vita contemplativa» e un «vivere nel mondo come se si fosse nel chiostro». Ma, per l’autrice, questo stato di celibato libero è la migliore garanzia di quell’indipendenza e autodeterminazione che la società tende a negare alla donna.

         Con un salto di secoli conduciamo i nostri lettori a incontrare un’altra figura femminile insolita: è la rabbina francese Delphine Horvilleur, nata a Nancy nel 1974 e attiva nella promozione di un pensiero ebraico liberale. Lo fa attraverso un testo dal tema provocatorio come la nudità e il pudore e dalla trama piuttosto spaesante perché l’autrice procede in modo impressionistico e incessantemente mutevole con sorprendenti asserti. Ne mettiamo in fila alcuni scelti in una libera sequenza: la donna «omni-genitale», l’ebraico lingua di sarti, posso lapidare mio zio?, Adamo e la tesi androgina, piccolo trattato di dermatologia biblica, il Santo…dei seni, eccesso di testosterone, l’essere di orifizio, pelle d’asino, pelle di donna, prendere moglie ogni mattina, femminilizzazione del maschio e così via.

         In realtà, questo puzzle si ricompone progressivamente, rivelando che non è esclusa nessuna tessera (anche quelle a luci rosse, come nel caso dell’analisi filologica del vocabolo ‘erwah che lasciamo scoprire a chi lo troverà nella lettura) così da comprendere quanto sia rilevante il tema della nudità, oltre ogni prurito, quanto sia arduo e forse impossibile «svelarsi» totalmente e quanto sia faticoso denudare i testi sacri dagli abbigliamenti imposti da secoli di incrostazioni ermeneutiche. Delphine Horvilleur, a scanso di equivoci, in appendice si dichiara «femminista ed ebrea, ma non femminista ebrea».

GIANFRANCO RAVASI

Gabrielle Suchon, Della morale e della politica, Paoline, Milano, pagg. 340, € 38,00.

Delphine Horvilleur, Nudità e pudore, Qiqajon, Bose (Biella), pagg. 154, € 16,00.

Si veda anche Anne-Marie Pelletier, Una comunione di donne e di uomini, Qiqajon, Bose (Biella), pagg. 265, € 25,00.