«Sorelluccia inviolata / ultima colomba dei diluvi stroncata / bellezza del Cantico dei cantici camuffata / in quei tuoi buffi occhiali di scolara miope». Questo ritratto evocativo e realistico al tempo stesso è stato abbozzato, nella poesia Felici pochi, da Elsa Morante, affascinata da Simone Weil, straordinaria figura del pensiero e della spiritualità ebraico-cristiana, vissuta solo 34 anni, capace di interpellare teologi e di inquietare agnostici. Tanto per esemplificare, in uno dei pochi incontri che ebbi con lui a Milano, Franco Fortini mi aveva confessato tutta la sua attrazione per questa donna, figlia di un medico alsaziano ebreo e di una russa, nata a Parigi nel 1909, di salute precaria ma dall’intelligenza folgorante (il fascino per la sua riflessione condusse Fortini a diventare traduttore di alcune opere di Simone).
A questa genialità si univa una forte carica umana, tant’è vero che si era dedicata agli studenti-operai, all’impegno nel sindacato e persino alla militanza politica col tentativo di partecipare alla guerra in Spagna nel 1936, una scelta frustrata dalla sua fragilità fisica. Nel 1937 un viaggio in Italia squarcia in lei il velo della spiritualità attraverso le soste a Firenze, Assisi e Roma, così come con la liturgia della Settimana Santa nell’abbazia benedettina di Solesmes che genera in lei un’«illuminazione» nella quale Cristo la conquista. Basterebbe questa sua testimonianza: «Cristo ama che gli si preferisca la Verità, perché prima di essere il Cristo, lui è la Verità. Se ci allontaniamo da lui per andare verso la Verità, non faremo molta strada senza ritrovarci tra le sue braccia».
Anche se non compirà questo atto, la Weil desidererà persino di essere battezzata e pur non tagliando mai le radici con la sua matrice ebraica, si rivolgerà ininterrottamente a Cristo stabilendo un dialogo serrato soprattutto col domenicano p. Joseph-Marie Perrin, al quale affiderà il suo testamento spirituale. Anche se la sua vicenda precedente di agnostica lascerà stampato sempre in lei un atteggiamento critico e polimorfo, incessante sarà il suo confronto con i teologi, tra i quali spicca Gustave Thibon. Per chi non conosce né può praticare alcuni suoi gioielli letterari spirituali come L’ombra e la grazia, tradotto per la prima volta in italiano proprio da Fortini per Comunità nel 1951, o Attesa di Dio, edito più volte da Rusconi, oppure i suoi Quaderni tradotti in quattro tappe diverse da Adelphi, preziosa sarà l’antologia inquadrata e annotata da François Dupuigrenet Desroussilles e ora proposta in italiano da Gianna Re.
Il sottotitolo è emblematico: «Investigazioni spirituali su Gesù di Nazaret», nella convinzione che Cristo non è un’idea pur gloriosa, né una figura sacrale, ma una sorgente vitale che può fecondare tutta l’esistenza umana. Infatti, «ogni bene puro procede da Cristo. Ogni bene è generato da Dio» e la sua «croce è la nostra unica speranza, perché in nessuna foresta esiste un albero simile, con questo fiore, questa foglia e questo frutto». È da lassù, da quell’uomo torturato e crocifisso, che discende la compassione autentica per tutti gli sventurati: «Chi dà un pezzo di pane senza dire nulla, nel modo giusto, dà in quello stesso istante la vita eterna. Un simile gesto può avere un valore redentivo ben più grande di tanti sermoni… Donare un pezzo di pane è più di un bel discorso, come la croce di Cristo è più delle sue parabole».
Per questo, pur continuando i suoi percorsi intellettuali da vertigine sulle vette del mistero, Simone non cesserà mai di impolverarsi i piedi a valle, lavorando nelle campagne per immedesimarsi nella condizione dei braccianti, oppure, con l’irrompere della guerra, consacrandosi alla formazione di un corpo di infermiere pronte a operare in prima linea e dedicandosi fino allo spasimo a quell’amore di donazione che ha nella croce di Cristo il vessillo supremo. Lassù si incontra persino l’amore rigettato, lo svuotamento di sé (quello che san Paolo chiama la kénosis) e soprattutto il silenzio di Dio. Certo, come dicevamo, la mobilità della sua intelligenza, instancabile navigatrice nell’oceano infinito della Verità, la conduce anche su frontiere ardite e fin rischiose.
È il caso del suo «Cristo universale» che ha il suo apice nella Lettera a un religioso, riproposta ora col saggio di uno studioso – scomparso nel 2012 – dalla competenza poliedrica e dallo sguardo tagliente, Pier Cesare Bori, teologo, filosofo, giurista, biblista (come antico compagno di studi universitari teologici, restai già allora ammirato per la sua profondità intuitiva). La Weil assomma in quella di Cristo tutte le incarnazioni di Dio che l’hanno preceduta o seguita in ogni tempo e regione, non solo nell’ebraismo anticotestamentario ma anche nell’Osiride egizio, nel Krishna indiano, nel Buddha, nella grecità classica e così via. Il testo può risultare sconcertante, la lettura di alcune pagine sembra trascinarci verso la deriva sincretistica. In realtà, lo sforzo di Simone è proteso a ricondurre tutti questi «redentori» nell’alveo dell’unico Redentore, Cristo, che è come un fiore dai molti petali.
Tuttavia la sua concezione di incarnazione, rivelazione e redenzione risulta alla fine molto fluida, tant’è vero che lei passerà oltre il perimetro della Bibbia ebraica e cristiana, inoltrandosi in una pluralità di Scritture nelle quali Cristo si svela senza identificarsi in una di esse. In questo immenso palinsesto religioso è compreso anche il creato perché «la bellezza del mondo è il dolce sorriso di Dio». In ultima analisi, fermo restando il suo ancorarsi a Cristo come ad asse centrale, le diverse pagine sacre e «ispirate» delle religioni sono segni ed epifanie della presenza divina molteplice e unica al tempo stesso. Come scriveva in uno dei suoi Quaderni del 1942, «la storia di Cristo è un simbolo, una metafora, ma un tempo le metafore si facevano realtà nel mondo. E Dio è il profeta supremo».
A parte questa concezione e il linguaggio spesso iridescente della Weil che possono sollecitare obiezioni a un’analisi sistematica, rimane la sua altissima testimonianza di fede e di amore, di spiritualità e di solidarietà umana che palpita soprattutto nella citata antologia dei suoi scritti cristologici. Incessante nella sua ricerca, Simone alla fine approderà in Inghilterra ove deperirà progressivamente e morirà nel sanatorio di Ashford nel Kent. Forse in quell’istante sbocciava in lei il desiderio di cibarsi dell’eucaristia cattolica, «un pezzetto di materia», scandaloso nella sua carnalità, ma «stupefacente nella sua virtù» perché segno di donazione totale e reale: «Affinché un uomo sia realmente abitato dal Cristo, come l’ostia dopo la consacrazione, è necessario che la sua carne e il suo sangue diventino materia commestibile per i suoi simili. Solo allora, per mezzo di una consacrazione segreta, questa materia può diventare corpo e sangue di Cristo».
GIANFRANCO RAVASI
Simone Weil, In nome dell’amore, Edizioni Terra Santa, Milano, pagg. 123, € 15,00.
Simone Weil, Lettera a un religioso, Castelvecchi, Roma, pagg. 90, € 12,50.
Pubblicato col titolo: Desiderio di Simone: «Cristo universale», su IlSole24ORE, n. 345 (15/12/2019).